Dietro ai Purity Ring si nascondono Corin Roddick e Megan James, duo canadese tornato indietro nel tempo da un futuro remoto per proporci il loro debutto Shrines, sotto 4AD. I due si erano già fatti notare lo scorso anno grazie ai due singoli “Ungirthed” e “Lofticries”, passati e ripassati sulle testate principali della scena internazionale e che gli hanno fatto guadagnare un tour con Neon Indian. Inevitabilmente, tutto ciò ha sollevato gli inevitabili amori o odii senza sfumature intermedie.
Al contrario dei nemici giurati del da sempre cruccio dei più tradizionalisti, il famigerato ‘hype’, “Shrines” risulterà cosa gradita ai cultori di quell’indie-pop ibrido, basato su sonorità prese sopratutto dal mondo della musica pop più delicata – scremandone gli episodi migliori – ma innestato anche da suggestioni elettroniche, pur continuando a suonare differentemente da quanto negli ultimi anni è sempre finito sotto la dicitura electro-pop. Per rendere l’idea, si avvicina, tra le uscite 2012, a un altro debutto che ha ossessionato molti e che condivide le stesse premesse di base, quello della – anch’essa canadese – Grimes.
Quasi tutte le tracce in scaletta sembrano seguire lo stesso spirito ed essere il frutto dello stesso processo creativo: di base si percepiscono chiaramente tracce delicate e tintinnanti, in cui la voce si fa eterea e sognante, che potrebbero benissimo essere la creazione di una romantica aspirante popstar di uno dei due X Factor anglofoni. A questo materiale grezzo di fondo è aggiunta poi tutta una serie di effetti e orpelli elettronici vari che trasformano le altrimenti noiose e stereotipate atmosfere pop in un qualcosa di coinvolgente e tipicamente figlio degli ultimissimi anni che stiamo vivendo.
Chi più chi meno, tutte le tracce in scaletta sembrano nascere come singoli o aspirare ad essere tali: non ci sono intro, pause o intermezzi ma una serie di tracce immediate e coinvolgenti. La visione d’insieme è chiara ed omogenea ma le sfumature non mancano, date per lo più variando il repertorio di effetti elettronici. Si passa dunque dalle immancabili atmosfere anni ’80 (soprattutto nella doppietta iniziale “Crawlersout” e “Fireshrine”), passando per suggestioni più scure a base di cori gutturali dal tono cupo a sostituire spesso i bassi (“Obedear”, “Lofticries”, “Anenamy”) fino a synth leggerissimi, in cui si ha l’impressione che il gruppo stia in realtà suonando giocattoli (“Belispeak”, “Ungirthed”, “Saltkin”).
In un disco come questo stabilire un gerarchia precisa, che possa individuare i momenti migliori o peggiori, diventa questione di preferenze personali. I singoli oggettivamente più robusti e riusciti sembrano essere – a parte i due già citati all’inizio – “Crawlersout” e “Belispeak” mentre difficilmente “Cartographist” o “Shuck” potranno suscitare molto entusiasmo. Un discorso a parte lo merita uno dei momenti più interessanti del disco, “Grandloves”: ai più distratti potrà suonare come una traccia come le altre, magari un po’ diversa per la voce maschile a mettere in secondo piano quella di Megan, ma gli ascoltatori più attenti avranno avuto un piccolo tuffo al cuore nel ritrovare il ritornello di uno dei singoli più belli usciti fin’ora (solo un piccolo grande indizio: Young Magic)
Nel complesso il disco potrebbe essere l’equivalente musicale di un collage d’autore. Il gruppo però non si limita a ritagliare e cucire insieme le diverse sonorità per comporre trame musicali dal taglio fresco e anti-convenzionale – in cui gli azzardi non mancano e non si risolvono sempre del tutto armoniosamente – ma confeziona e cura nel dettaglio tutti i vari strati musicali, molto diversi tra loro ma altamente funzionali alla visione d’insieme, senza abbassarsi a scopiazzature o ‘già sentito’ vari.
A tratti, si ha quasi l’impressione che i Purity Ring abbiano creato il remix di un loro segreto esordio pop, virando completamente su sonorità decisamente più originali e spingendosi su sentieri poi non così battuti – anche se dalla popolarità in forte crescita. Il risultato non è sempre del tutto perfetto e qualche stonatura qua e là la si può ancora percepire ma, nel complesso, hanno sicuramente dato una bella prova di originalità e freschezza con un disco omogeneo ma versatile, che promette di lasciarsi ascoltare fino all’ossesione.
TRACKLIST
1. Crawlersout
2. Fineshrine
3. Ungirthed
4. Amenamy
5. Grandloves
6. Cartographist
7. Belispeak
8. Saltkin
9. Obedear
10. Lofticries
11. Shuck