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Recensione : REDD KROSS – S/T

REDD KROSS – S/T

Uno degli album più gradevoli e interessanti da mettere su per rinfrescare i sensi e l’anima in questa ennesima estate frivola, anonima e insulsamente torrida, questo pantagruelico comeback omonimo dei pesi massimi della scena power pop mondiale, nonché uno dei tesori meglio conservati nello scrigno dell’alternative rock, i losangelini Redd Kross, che non si sono affatto risparmiati e hanno infilato ben diciotto brani in quello che è il loro ottavo long playing complessivo, uscito su In The Red alla fine del mese scorso, e arrivato in un 2024 che segna un traguardo notevole per i fratelli Steven e Jeff McDonald, quello dei quarantacinque anni di esistenza musicale (tra lutti, side projects, pause e reunion) che vengono celebrati anche con la pubblicazione di una nuova biografia e di un rockumentary sul gruppo.

I McDonald brothers, infatti, hanno mosso i primi passi nel 1979 (ancora adolescenti, Steve aveva addirittura tredici anni ai tempi dell’uscita del loro primo Ep omonimo!) facendosi le ossa all’interno della scena HC punk californiana (aprendo i concerti per gente come i Black Flag) per poi virare verso un sound più melodico e smussato dei suoi angoli più rozzi e sgraziati, perfezionando una formula che poi avrebbe fatto scuola e ispirato le band della scena indie/alternative statunitense (si sapeva per certo che fossero adorati da Kurt Cobain, passando per i Sonic Youth e fino ad arrivare ai più recenti Lemon Twigs) grazie a dischi come “Neurotica“, “Third Eye” e “Phaseshifter“.

Redd Kross” è un (doppio) Lp prodotto da Josh Klinghoffer (ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers, tra le altre attività) dichiaratamente ispirato ai Beatles (e al mastodontico documentario di Peter Jackson incentrato su di loro, “Get Back“, che ha fornito tanti spunti ai due fratelli) sia nell’artwork, che si richiama – anche se con un colore diverso – a quello del “White Album” dei colossi di Liverpool, sia a livello sonoro, essendo i quattro scarafaggi inglesi, da sempre, tra le influenze principali del combo californiano (insieme al punk rock degli esordi e a un pizzico di glam rock) e che, di fatto, rende quest’opera il “Red album” dei nostri, essendo ogni solco impregnato della lezione dei Beatles (e sempre con un cantato che si avvicina pericolosamente a quello di John Lennon) in tutte le loro varianti: pop/rock (“Terrible band“, “Back of the cave“, “Too good to be true“, “The shaman’s disappearing robe“) freak/merseybeat (“What’s in it for you?“, “I’ll take your word for it“, “Stuff“) psichedelica (“Good times propaganda band“) riletta ed elettricamente shakerata nel consueto stile power pop vigoroso e catchy del duo (come sempre con Jeff alla voce e chitarra e Steven al basso e voce, coadiuvati da Jason Shapiro alla chitarra/voce e, per l’occasione, dal succitato Klinghoffer alla batteria in sostituzione di Dale Crover) per un’ora di durata in cui, però, difficilmente ci si annoia e/o si è assaliti dalla voglia di “skippare” i pezzi: dall’energico singolone apripista “Candy coloured catastrophe” e momenti più duri (“Stunt queen“, “Canción enojada“, “Simple magic“, “Lay down and die“, “Emanuelle insane“) alle ballad anfetaminizzate (“The main attraction“, “Way too happy“, “The witches’ stand“) il piatto è ricco di ottime armonie e chitarre che, a seconda dei casi, sanno ruggire o addolcirsi, col viaggio che si conclude con l’anthemica “Born innocent” che riassume tutta la loro avventura musicale e umana caratterizzata da una attitudine ironica e scanzonata.

Badass record, guys!

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