Riccardo cuor di maiale. Della morte e della fine (seconda parte).
Racconto di Daggo Roschi
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Mi avvicino alla rete elettrosaldata che delimita il recinto.
Riesco a vedere i maiali imprigionati al di là della rete, un gruppo di tre scrofe assieme a una quindicina di piccoli riempie l’aria di suoni: grugniti brevi, grugniti semplici, grugniti staccati, grugniti lunghi. Un piccolo, spaventato dalla mia presenza, emette anche un latrato.
La madre lo tranquillizza, lei non ha paura di me.
I maiali associano la figura dell’uomo alla manutenzione delle stalle, niente di pericoloso per loro.
Il piccolo, prudente, si nasconde comunque tra le gambe della madre.
Diversamente dal fratello codardo un altro suinetto che mi si avvicina incuriosito, è davanti alla rete e spinge il piccolo grugno fuori dagli esagoni in fil di ferro.
Intenerito, mi faccio mordicchiare le mani. I denti a spillo sarebbero in grado di farmi male ma non è quello che succede, l’animale sta usando la bocca delicatamente, come io farei con la mano, è il suo modo per esplorare il mondo.
Con le tenaglie inizio a recidere la rete e nell’arco di un minuto ho aperto una via di fuga.
5
Riccardo Diella ha la testa quasi attaccata al collo, il naso prominente, le narici rotonde, le fessure oculari a virgola e le sopracciglia ispide come pelo. Tutte queste cose si stagliano su una faccia stranamente rosea.
Il suo viso, lo pensano in molti, lo fa apparire come un grosso verro.
Chi sa come si accenderebbero poi, gli stessi paesani, se scoprissero che le analogie non si fermano solo al volto.
Se lo si denuda, infatti, il numero delle affinità continua a crescere.
La distribuzione dei peli, sporadici e ispidi, riprende in pieno quella di un maiale rosa e anche la forma dei prosciutti delle cosce, grasse e poderose, è parimenti analoga.
L’enorme scroto poi, sormontato da un fallo dalla forma vagamente a cavatappi, è quanto di più affine ha sempre ritenuto di avere con l’animale.
La cosa si estende anche all’anatomia interna: le masse muscolari, almeno secondo l’ultima tomografia, sono ben infiltrate di grasso (ovvero marezzate nel gergo dei macellai) e lo strato sottostante la pelle, l’ipoderma, così ben sviluppato da renderlo metaforicamente ricoperto di cotenna.
Se non fosse perché sta in piedi, a volte lo pensa anche Riccardo, sembrerebbe decisamente più un suino che un essere umano.
C’è poi un ultima stranezza, qualcosa che precipita Diella in maniera definitiva e conclusiva verso l’area semantica dei suini e in cui, se non si conoscono i fatti, si potrebbe vedere l’accettazione consapevole da parte di Riccardo del destino manifesto nella sua persona: lavora in un allevamento di maiali.
Per farlo ogni mattina sposta i suoi 106 kg dal dormitorio di Prato dove vive verso la Tenuta del Porco, dove applica i protocolli di gestione Staghero.
Il suo lavoro consiste per lo più nel rifornire il miscelatore con scarti ortofrutticoli e avanzi delle mense, far vibrare con lo scuotitore vari alberi da frutto (che secondo la stagione sono meli, ulivi, fejioe, querce, noccioli, mandorli, castagni, giuggioli, susini, peri e diversi altri frutti stranieri in fase di validazione sperimentale), effettuare la settimanale pulizia straordinaria delle stalle e controllare in generale che tutto vada bene.
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Ogni tanto mi capita di ripensare a quando, da adolescente, feci scappare dei maiali dal recinto cinque.
Mi beccarono in flagrante circa due minuti dopo: il proprietario passava dalla redola che stavo percorrendo col suo fuoristrada. Provai anche a nascondermi, ma il cuore non mi permise di farlo. Mi trovo affannato, appoggiato a un leccio, e insisté per accompagnarmi fuori dal bosco.
Capì tutto nei giorni seguenti l’uomo, quando sarebbe stato troppo tardi probabilmente, se non fosse stato per la telecamera che l’assicurazione gli obbligava a tenere sul parabrezza della macchina. Il mio viso, le tenaglie impercettibilmente sporgenti dal giacchetto, la targa del motorino con cui me ne ero andato: compariva tutto chiaramente nei video.
I primi a dirmelo furono i carabinieri: mi aspettarono direttamente fuori da scuola, era un pomeriggio di primavera.
Alla fine, alla luce della particolarità del mio caso, ci fu comunque molta indulgenza nella mia condanna: avrei dovuto lavorare tutto il resto dell’estate nell’allevamento, nient’altro.
Il miei si dissero d’accordo, il cardiologo anche (purché mi limitassi a compiti leggeri) e così, quattro giorni dopo la sentenza, mi trasformai da liberatore in carceriere.
La prima cosa che scoprii a lavoro è che, dei maiali che avevo liberato, solo uno era scappato. Gli altri si erano fatti una girata fuori, ma la notte stessa erano tornati alla stalla.
Quello mancante lo ritrovai io stesso, la terza settimana dei miei lavori forzati: era in una fossa, morto. Probabilmente si era rotto una gamba durante la libera uscita, scendendo da un dirupo troppo ripido, uno di quelli che dentro il recinto sarebbero stati preventivamente appianati.
Fu in quel momento, guardando il suo corpo in decomposizione, che capii come stavano le cose.
I suini dell’allevamento non erano dei reclusi, ma dei privilegiati: vivevano in un paradiso dove non conoscevano morte, fame e malattia.
Nascevano e vivevano nel benessere, imparando che di tanto in tanto i membri della loro orda scomparivano e che, una volta che fosse giunto il loro turno, anche loro sarebbero scomparsi per ricomparire accanto a coloro che precedentemente avevano perduto in un nuovo recinto.
Nessuno dei maiali dell’allevamento, in tutta la sua vita, avrebbe mai visto un suo simile morire, invecchiare o soffrire, l’unica cosa di cui avrebbe avuto percezione sarebbe stato lo scorrere del ciclo.
Per me, che sono un uomo ma anche un maiale, quello era il massimo dono che potessi fare ai miei fratelli e credo che, anche se non so di preciso in che modo gli animali si rendano conto della vita e della morte, i porcelli, se potessero dire la loro, sarebbero d’accordo con la mia valutazione.
Mi impegnai molto quell’estate e, complici gli incentivi per le assunzioni degli invalidi, venni assunto appena diplomato nel podere. Tutt’oggi ci lavoro.
Ora mangio anche carne di maiale, perché mi piace sapere che così facendo riesco a garantire la continuità dell’allevamento, ma i dottori dicono che dovrei smetterla, per via del troppo colesterolo che si deposita nel cuore.
Non riesco più a smettere però: quando mastico un panino con la porchetta mi sento come se stessi facendo qualcosa di profondamente sacro, a volte, senza farlo apposta, mi scopro a pensare parole da mistico: sangue del mio sangue e carne della mia carne.
7
Riccardo è un uomo di quarant’anni e si è svegliato in mezzo alla notte, è in affanno e gli duole il cuore, ha fatto un incubo stranissimo: ha sognato che la razza umana è stata creata da degli alieni, fatta a loro immagine e somiglianza, e che gli alieni li avevano voluti così perché avevano bisogno di esseri da cui rifornirsi di organi.
Gli alieni a modo loro amavano molto l’umanità e, seppure i suoi membri fossero stati creati con lo scopo di morire per far vivere la loro specie, per allevarla crearono un luogo bellissimo, un dedalo di giardini, dove ogni cosa era stata preposta per l’uomo.
Un giorno però, una donna si arrampicò sulla cima di un albero per coglierne i frutti e cadde al suolo. I suoi compagni le si radunarono intorno. Erano incapaci di comprendere cosa le fosse successo e, quando gli alieni la trovarono, la donna ormai era morta.
Non avrebbe dovuto arrampicarsi, le era stato vietato di salire a cogliere i frutti troppo in alto, ma lei aveva disobbedito.
Gli uomini allora chiesero ai creatori che cosa mai fosse successo e gli alieni, che mai una volta avevano mentito agli uomini, li fecero parte della conoscenza della morte e della fine.
Quel giorno gli alieni se ne andarono, non potevano più pagare le vite delle persone con l’ignoranza della morte e la loro morale gli impediva di barattare una simile merce utilizzando qualunque altra contropartita.
Mentre vedeva allontanarsi le astronavi, il Riccardo del giardino, provò una grande angoscia.
Fu in quel momento che si svegliò.
FINE