“Réflexions sur la guillotine” è un saggio del ’57 di Camus che appare prima sulla “Nouvelle Revue Francaise” e poi nel libro “Réflexions sur la peine capitale”, un testo che comprende altre indagini sulla pena di morte.
Nella prefazione di questo libro si legge: “… a giudicare dall’indifferenza dell’opinione e dei poteri pubblici, si potrebbe arguire che si tratta di un problema di scarsissimo interesse.
E il silenzio è soprattutto prerogativa delle autorità. Sarà sufficiente interromperlo perché la gente avverta il fastidioso rumore delle esecuzioni.
A questo, oggi, si accinge Albert Camus”.
Potrete leggere passaggi come questi:
- Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all’uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l’ordine in seno allo Stato.
- Della pena capitale si scrive, oserei dire, a voce bassa. Nella nostra civilissima società la gravità di un male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla.
- (…) la pena di morte (…) sta al corpo politico come il cancro al corpo dell’individuo, con la differenza che nessuno ha mai parlato della necessità del cancro. Non si esita invece a presentare la pena di morte come una dolorosa necessità, che legittima dunque a uccidere, poiché è necessario, e a non parlarne, poiché il farlo è sconveniente.
- Quando l’immaginazione dorme, le parole si vuotano di senso: un popolo sordo registra distrattamente la condanna di un uomo. Ma che si mostri il meccanismo, che si faccia toccar con mano il legno e il ferro, che si faccia sentire il tonfo della testa che cade, e l’immaginazione pubblica, risvegliata di soprassalto, ripudierà al tempo stesso il vocabolario e il supplizio.
- Diventerebbe più difficile giustiziare a catena, come accade oggi nel nostro paese, se queste esecuzioni si traducessero in vivide immagini nella fantasia popolare. Colui che sta assaporando il caffè e legge che giustizia è stata fatta, al minimo dettaglio lo risputerebbe.
- Impaurisce almeno quella razza di criminali su cui pretende di agire, e che vivono del crimine? Nulla è meno certo. Si può leggere (…) che in Inghilterra, all’epoca in cui i borsaioli venivano giustiziati, altri borsaioli esercitavano il proprio talento tra la folla che circondava la forca da cui pendeva il collega.
- Da secoli la pena di morte, spesso accompagnata da selvagge raffinatezze, tenta di tener testa al delitto; e il delitto persiste.
- Non c’è nobiltà attorno al patibolo, ma disgusto, disprezzo, o il più spregevole godimento. Questi effetti sono noti. La decenza stessa ha imposto che la ghigliottina emigrasse dalla piazza del Municipio alle porte della città, e poi nelle prigioni.
- Generalmente l’uomo è distrutto dall’attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono due morti, e la prima è peggiore dell’altra, mentre egli ha ucciso una volta sola. Paragonata a questo supplizio, la legge del taglione appare ancora come una legge di civiltà. Non ha mai preteso che si dovessero cavare entrambi gli occhi a chi aveva reso cieco di un occhio il proprio fratello.
- (…) ogni società ha i criminali che si merita.
- (…) il tasso di responsabilità dell’alcol nella genesi dei delitti di sangue è allucinante. (…) il 95% dei carnefici di bambini sono degli alcolizzati. Quanto allo Stato che semina alcol, non può stupirsi di raccogliere delitti. Infatti non se ne stupisce, limitandosi a mozzare le teste nelle quali ha versato lui stesso quell’alcol. (…) E’ del tutto sorprendente che i parenti delle vittime di delitti causati dall’alcol non abbiano mai pensato di sollecitare spiegazioni nell’aula del Parlamento. Accade invece l’esatto contrario, e lo Stato, investito della generale fiducia, sostenuto persino dall’opinione pubblica, continua a punire gli assassini, anche e soprattutto se alcolizzati, un po’ come il protettore punisce le laboriose creature che gli garantiscono la pagnotta.
- (…) nessuno di noi può erigersi a giudice assoluto e decretare l’eliminazione definitiva del peggiore dei colpevoli, poiché nessuno di noi può attribuirsi l’assoluta innocenza.
- (…) da trent’anni a questa parte i delitti di Stato superano di gran lunga i delitti individuali. Non parlo neppure delle guerre, mondiali o locali che siano, benché il sangue sia un alcol che a lungo andare intossica come il più generoso dei vini. Ma il numero degli individui uccisi direttamente dallo Stato ha assunto proporzioni astronomiche e supera infinitamente quello dei delitti individuali. Continuano a diminuire i condannati per reati comuni, e ad aumentare i condannati politici.
- Quelli che fanno versare la maggiore quantità di sangue sono gli stessi che credono di avere dalla loro parte il diritto, la logica, e la storia. Non è dall’individuo ma dallo Stato che oggi la società deve difendersi.
- Nel nostro continente tutti i valori sono sconvolti dalla paura e dall’odio, tra gli individui come tra le nazioni. La lotta delle idee si fa con il capestro e con la mannaia. Non è più la società umana e naturale che esercita i suoi diritti di repressione, ma è l’ideologia che domina ed esige i suoi olocausti umani.
- La malattia dell’Europa consiste nel non credere in nulla, e nel presumere di sapere tutto.
Cos’altro aggiungere?
Forse vale la pena ricordare che Camus morì in un incidente d’auto e che ancora aleggia il sospetto che la vettura sia stata manomessa dagli agenti del KGB, questo per le ripetute denunce dello scrittore riguardo l’ invasione sovietica in Ungheria e un discorso in favore del Nobel allo scrittore dissidente Boris Pasternak.
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