Questo romanzo del 1967 narra la storia centenaria della famiglia Buendía e della città di Macondo. In un intreccio di vicende favolose si compie il destino della città dal momento della sua fondazione alla sua momentanea e disordinata fortuna, fino alla sua rovina e definitiva decadenza. La parabola della famiglia segue la parabola di solitudine e di sconfitta che sta scritta nel destino di Macondo.
Potrete leggere passaggi come questi:
- (…) senza alzare la voce, fece un particolareggiato resoconto di come avevano fondato Macondo, di come si erano divisi la terra, aperte le strade e introdotto le migliorie che a mano a mano aveva richiesto loro il bisogno, senza aver dato fastidio ad alcun governo e senza che alcuno desse loro fastidio. “Siamo così pacifici che non siamo nemmeno morti di morte naturale” disse. (…) Non si lamentò che il governo non li avesse aiutati. Al contrario, si rallegrava che fino a quel momento li avesse lasciati crescere in pace, e sperava che continuasse a lasciarli così: non avevano fondato un villaggio perché il primo capitato venisse a insegnare quello che dovevano fare.
- Padre Nicanor Reyna – che don Apolinar Moscote aveva portato (…) per fargli celebrare il matrimonio – era un vecchio indurito dall’ingratitudine del suo ministero. Aveva la pelle triste, quasi sulle sole ossa, e il ventre pronunciato e rotondo e una espressione di angelo vecchio che era più di innocenza che di bontà. Aveva l’intenzione di tornare nella sua parrocchia dopo il matrimonio, ma si stupì dell’aridità degli abitanti di Macondo, che prosperavano nello scandalo, soggetti alla legge naturale, senza battezzare i figli né santificare le feste. Pensando che nessun luogo avesse tanta necessità della semente di Dio, decise di fermarsi ancora una settimana per cristianizzare circoncisi e gentili, legalizzare concubinari e sacramentare moribondi. Ma nessuno gli fece caso. Gli rispondevano che erano rimasti senza prete per molti anni, che sistemavano le faccende dell’anima direttamente con Dio, e che avevano perso la malizia del peccato mortale.
- Dato che Aureliano in quell’epoca aveva nozioni assai confuse sulle differenze tra conservatori e liberali, suo suocero gli dava lezioni schematiche. I liberali, gli diceva, erano massoni; gente di cattiva indole, favorevole all’impiccagione dei preti, alla instaurazione del matrimonio civile del divorzio, al riconoscimento di uguali diritti sia ai figli legittimi che a quelli naturali, e allo spezzettamento del paese in un sistema federale che avrebbe spogliato del potere l’autorità suprema. I conservatori, invece, che avevano ricevuto il potere direttamente da Dio, si battevano per la stabilità dell’ordine pubblico e della morale della famiglia; erano i difensori della fede di Cristo, del principio dell’autorità, e non erano disposti a permettere che il paese venisse squartato in entità autonome.
- (…) era antimilitarista. Considerava gli uomini d’arme dei fannulloni senza princìpi, intriganti e ambiziosi, abili solo ad affrontare i civili per farsi strada nel disordine.
- (…) tutti i tribunali di guerra sono una farsa (…).
- Quello che mi preoccupa è che a furia di odiare i militari, a furia di combatterli, a furia di pensare a loro, hai finito per essere uguale a loro. E nella vita non esiste un ideale che meriti tanta abiezione. Di questo passo (…) sarai il dittatore più dispotico e sanguinario della nostra storia (…).
- C’era sempre qualcuno (…) che voleva andarsene a dormire per sempre perché non poteva più sopportare nella bocca il sapore di merda della guerra e che, ciò nonostante, si metteva sull’attenti con le sue ultime riserve di energia per informare: “Tutto normale, signor colonnello”.
- (…) era più facile cominciare una guerra che finirla.
- (…) il governo conservatore (…) stava riformando il calendario in modo che ogni presidente rimanesse cento anni al potere.
- L’unica differenza attuale tra liberali e conservatori, è che i liberali vanno alla messa delle cinque e i conservatori alla messa delle otto.
- (…) le raccontarono che José Arcadio Secondo stava incitando allo sciopero i lavoratori della compagnia bananiera. “Ci mancava solo questo” si disse Fernanda. “Un anarchico in famiglia.”
- (…) bussò alla porta della casa una vecchia suora che portava un cestino appeso al braccio. Quando le aprì, Santa Sofia de la Piedad pensò che fosse un regalo e cercò di toglierle il cestino ricoperto con una bellissima copertina di pizzo. Ma la suora glielo impedì, perché aveva l’ordine di consegnarlo personalmente, e sotto il più stretto riserbo, alla signora Fernanda del Carpio in Buendía. Era il figlio di Meme (chiusa in un convento dalla madre Fernanda, nda). L’antico direttore spirituale di Fernanda le spiegava in una lettera che era nato due mesi prima, e che si erano permessi di battezzarlo col nome di Aureliano, come suo nonno, perché la madre non aveva schiuso le labbra per esprimere la sua volontà. Fernanda si ribellò dentro di sé a quella beffa del destino, ma davanti alla suora ebbe la forza di dissimulare. “Diremo di averlo trovato che galleggiava in un cestino” sorrise. “Non ci crederà nessuno” disse la suora. “Se hanno creduto alle Sacre Scritture” ribatté Fernanda, “non vedo perché non dovrebbero credere a me.”
- Erano tre reggimenti la cui marcia ritmata da tamburi di galeotti faceva trepidare la terra. (…) tutti sopportavano con uguale stolidità il peso dei tascapane e delle borracce, e la vergogna dei fucili con le baionette innestate, e la scoglionatura dell’obbedienza cieca e del senso dell’onore.
- Non capiva perché fossero state necessarie tante parole per spiegare quello che si provava in guerra, quando ne bastava una sola: paura.