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Recensione : #rileggiamo: Delitto E Castigo Di Fedor Dostoevskij

Di questo romanzo del 1866 ve ne parla direttamente Dostoevskij: “E' il rendiconto psicologico di un delitto.

dostoevskij

Di questo romanzo del 1866 ve ne parla direttamente Dostoevskij: “E’ il rendiconto psicologico di un delitto.

Un giovane, che è stato espulso dall’Università e vive in condizioni di estrema indigenza, suggestionato, per leggerezza e instabilità di concezioni, da alcune strane idee non concrete che sono nell’aria, si è improvvisamente risolto a uscire dalla brutta situazione. Ha deciso di uccidere una vecchia che presta denaro a usura.”

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • (…) la miseria nera è un vizio. Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso.
  • Bisogna pure che ogni uomo abbia qualche posto dove andare. Poiché ci sono momenti in cui assolutamente bisogna andare da qualche parte!
  • A tutto finisce per abituarsi, questa carogna che è l’uomo!
  • In questa faccenda, sai cos’è più brutto di tutto? Non le scemenze che dicono; le scemenze si possono sempre perdonare; sono una cosa positiva, in fondo, perché portano alla verità. No, quel che dà più fastidio è che prima le dicono, e poi le ammirano.
  • Spararle grosse a proprio modo, è quasi meglio che dir la verità al modo altrui; nel primo caso sei un uomo, nel secondo sei solo un pappagallo.
  • Gente felice quella che non ha nulla da chiudere a chiave!
  • Perché mai, poco fa, quel balordo se la prendeva con i socialisti? Gente laboriosa, industriosa; si interessano della felicità generale…
  • (…) non posso approvare, per principio, la beneficienza privata, giacché non solo non elimina radicalmente il male, ma anzi lo alimenta ancor di più (…).
  • (…) in certe cerimonie sociali obbligatorie per chiunque nel nostro modo di vivere, molti poveracci si spellano e spendono gli ultimi quattro soldi che hanno risparmiato, allo scopo di “non essere da meno degli altri” e non essere “criticati”.
  • In tribunale (…) non presteranno fede a due atei dichiarati, liberi pensatori e sovversivi.
  • “Mettetemi sdraiata, lasciatemi almeno morire in pace (…) Che cosa? Un prete?… Non serve… Avete proprio soldi da buttare via?… Non mi lascio dietro peccati, io!… Dio mi deve perdonare anche così… Lui lo sa quanto ho sofferto!… E se non mi perdona, vuol dire che non ha importanza!…”
  • Quanto sian tutti un po’ vigliacchi quando si tratta della propria opinione personale, voi non potete nemmeno immaginarvelo!
  • Se nella schiettezza c’è solo il centesimo di nota falsa, subito ne nasce una dissonanza, poi uno scandalo. Se nell’adulazione, invece, è tutto falso, tutto fino all’ultima nota, allora essa riesce gradita e si ascolta con un certo piacere; sarà un piacere grossolano, ma è pur sempre un piacere. E per quanto infantilmente grossolana possa essere l’adulazione, almeno per metà essa sembra senz’altro vera.
  • “Delitto? Quale delitto? (…) Perché ho ucciso un pidocchio schifoso, malefico, una vecchia usuraia che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue ai poveri, un essere la cui soppressione dovrebbe far perdonare quaranta peccati? Questo sarebbe un delitto? Non ci penso nemmeno, e non intendo affatto lavarlo. Tutti puntano il dito contro di me, e mi sento dire da ogni parte: Delitto, delitto! (…) Ah! E’ la forma che non va, la forma non è esteticamente soddisfacente!… Be’, proprio non capisco: distruggere il prossimo con le bombe, o dopo un regolare assedio; è forse un modo più rispettabile? La preoccupazione estetica è il primo segno di debolezza! Mai, mai me ne sono reso conto prima di adesso, e men che mai capisco in che cosa consiste il mio delitto! Mai, mai sono stato più forte e più convinto di adesso!…”
  • Capirò forse meglio la vita dopo vent’anni di lavori forzati, logorato dai patimenti, dall’idiozia, dall’impotenza della vecchiaia? A cosa mi servirà, allora, la vita?
  • (…) è davvero possibile che nei prossimi quindici o vent’anni la mia anima debba addolcirsi al punto da farmi piagnucolare contrito, davanti alla gente, accusandomi ad ogni istante d’essere un bandito? Ma sì, sarà così, senz’altro così! Proprio per questo mi esiliano, è di questo che hanno bisogno…

 

Cos’altro aggiungere? Dostoevskij ebbe una vita irrequieta e tormentata, anche a causa della salute precaria.

Nel 1849, all’età di ventott’anni e già noto come scrittore, fu arrestato per le sue simpatie socialiste e condannato a morte; la pena fu commutata all’ultimo momento in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Tornato a Pietroburgo si dedicò alla letteratura e scrisse le sue opere migliori pur tra le difficoltà materiali, morali e di salute (soffriva di epilessia) in cui si dibatteva.

Trasse la materia per i suoi scritti scrutando le drammatiche contraddizioni nel profondo della coscienza: la disperata ricerca del bene e l’incapacità di raggiungerlo.

 

 

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