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Recensione : Ritratto in piedi di Gianna Manzini

Questo libro, vincitore del premio Campiello nel '71, è in pratica l’ultima opera di Gianna Manzini, scrittrice italiana “scoperta” da Eugenio Montale. Il romanzo, dedicato alla memoria del padre, riconduce il lettore ai conflitti sociali del primo Novecento in Toscana.

Ritratto in piedi di Gianna Manzini

Ritratto in piedi di Gianna Manzini

Questo libro, vincitore del premio Campiello nel ’71, è in pratica l’ultima opera di Gianna Manzini, scrittrice italiana “scoperta” da Eugenio Montale. Il romanzo, dedicato alla memoria del padre, riconduce il lettore ai conflitti sociali del primo Novecento in Toscana.

L’autrice delinea con precisione la figura di un uomo di doti eccezionali, che ha speso la sua esistenza per un’idea di alta moralità a cui è sempre rimasto fedele con eroica coerenza: l’anarchia.

“Ritratto in piedi” ridiede fiato a quella produzione romanzesca che nel corso degli anni immediatamente precedenti era stata contrastata dal boom della produzione saggistica; va accostato a quelle opere che, come “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini e “La storia” di Elsa Morante, dimostrano fra le tante cose di saper coinvolgere quelle fasce di lettori giovani provenienti dall’esperienza sessantottesca che dopo aver respinto in blocco la letteratura le si riavvicinano acquistando un ruolo sempre più decisivo nella definizione dei successi letterari in Italia.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Finché esisterà un solo mendicante (…) nessuno avrà il diritto d’essere felice.
  • Quanta gente pensa soltanto a comprare, e a tenere per sé. Una vera maledizione gli acquisti: empiono la testa di prezzi, di numeri. Se son tutte qui le loro ambizioni bisogna dire che si contentano di poco.
  • La proprietà impedisce di saper morire. A furia di comprare, e di capitalizzare, s’illudono di sviare la morte, o d’ingannarla.
  • Pochi? Che conta? Appartengono alla storia; hanno questa fatale importanza. A dispetto di quelli che osano trovare il nostro mondo senza ragione, trottola che si gira su se stessa, loro, gli anarchici, tracciano una linea decisa. Anni, secoli avanzano; e, nel presente, è già l’incandescente domani che palpita.
  • Impedire che la fatica, il lavoro, si trasformi in oro per padroni che affamano chi lo ha prodotto.
  • Col dovere ti dispensano dal pensare. Giù la testa, più bassa, pronta per il piede sul collo. E così ti assuefanno da vivo alla tomba. Anzi, sei già steso e non lo sai.
  • Una solitudine così confermata, solitudine anche nelle proprie scelte, e preferenze, anche nelle piccole manie o ambizioni, o pensieri, o abitudini, non sempre dà fierezza: può anche stringere il cuore, bambina mia.
  • Alzai anch’io gli occhi al Crocifisso. Mi consultai con quel bel viso, reclinato sulla spalla. E dubitai: o non saranno troppe tutte quelle piaghe? Dai spettacolo, gli dissi: certo, non è colpa tua. Al babbo non piace che ti concino in questo modo. Ti travisano. Che bisogno c’era di ridurti così per farti adorare. E che sperano? Che vogliamo somigliarti, perché sanguini? Il babbo vede il tuo insegnamento in tutt’altra maniera. Dice che tu hai additato una salvezza qui, fra gli uomini.
  • E poi i cosiddetti “beni”, che peso, che disagio; peggio che un debito. La terra come il cielo deve essere di tutti: è già troppa quella che uno occupa con la cassa da morto. Perfino l’aver potuto studiare può sapere di privilegio e offendere chi è costretto a firmare con una croce.
  • L’istruzione stessa, oggi, è un privilegio; crea l’amara solitudine del privilegiato e qualche volta la spregevole compagnia dei privilegiati.
  • Malatesta aveva detto: “Se per far trionfare l’anarchia occorresse applicare la forca, rinuncerei alla rivoluzione”.
  • La vanità mangia l’anima.
  • La mia patria è il mondo.
  • L’eredità ribadisce il capitale come un chiodo; è una forza del capitale. E dunque, niente.
  • “Se qualcosa bisogna distruggere è soltanto tutto ciò che genera l’odio”. Proprio non capisco perché parlare così debba essere un rischio; e che il contadino al quale vanno ripetendo che la terra deve appartenere a chi lavora, invece di rallegrarsene abbia tanta paura.
  • Se voi amate solo coloro che vi amano che merito avete?
  • Gli anarchici. Anche a dirlo fa effetto.
  • Nella sua calma traspariva la vittoria del vinto.
  • L’eredità favorisce l’inerzia. Addormenta.
  • Non basta averlo un’ideale; bisogna esserne degni: capaci cioè di sacrificargli qualsiasi cosa, a cominciare da se stessi.
  • (…) chiudere gli occhi è una virtù; ignorare è una virtù. Squallida, però.
  • Si dimentica ciò che si vuole dimenticare. Ciò che ci disonora. È risaputo. La memoria, a volte, è caritatevole.
  • (…) un angelo brutto non è plausibile. Bellezza e bontà: così vuole l’uso balordo e stantio.

 

Volete sapere qualcosa di più del papà?

Giuseppe Manzini, nato da famiglia ricca, seminarista e poi fuggiasco, diventa giovanissimo anarchico e riversa il suo sapere e i suoi averi nella diffusione delle idee libertarie.

Organizzerà uno sciopero diretto contro la ditta del cognato e sua (infatti è socio), ma lascerà la sua posizione e la sua eredità dopo le critiche feroci della famiglia e dopo che lo sciopero ha vinto, abbandonando totalmente e definitivamente quel mondo borghese a lui troppo stretto; ne verrà anche abbandonato e vedrà il suo matrimonio finire. Rinuncia alla proprietà e, quando morirà (nel ’25), la sua completa povertà farà dire a uno dei suoi amici che il funerale “è stato un funerale di una povertà e di una purezza e di un silenzio veramente strazianti”.

In pratica non c’era nemmeno il falegname per chiudere la cassa: era scappato per paura di compromettersi coi fascisti.

 

Marco Sommariva

marco.sommariva1@tin.it

 

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