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Spotify

È passato poco più di un mese da quando il colosso londinese ha deciso di sbarcare anche in Italia con il suo programma tipo-iTunes-ma-in-streaming-e-gratis-ma-se-paghi-hai-roba-in-più. Chiunque abbia provato a installarlo e collegarlo al proprio profilo Facebook mi capirà, se dico che non è difficile entusiasmarsi. Gli adepti sono infatti cresciuti stabilmente giorno dopo giorno, andando a pescare da un pubblico piuttosto eterogeneo e non solo dai soliti hipster nerdeggianti che non si fanno scappare l'ultima supposta rivoluzione post-MySpace (di prima generazione).

Chi scrive, ammette di essere rimasto fulminato piuttosto in fretta da tutta la storia: una quantità incredibile di musica disponibile (che non si limita alla solita fiumana mainstream più o meno attuale), opportunamente taggata e catalogata (tenere puliti i metadata e le copertine di iTunes è sempre stato un lavoraccio ingrato), comodamente riorganizzabile a piacimento e non guasta neanche la velleità di poter mettere il tutto in modalità social, sottoponendolo al giudizio del proprio ecosistema Facebook (un bel paio di passi in avanti rispetto al video YouTube condiviso in bacheca).

Quei due giorni di prova gratuita della versione mobile sono stati sufficienti per fare il grande passo e sganciare la grana: 10€/mese che fanno paura se si pensa che sono 120€/anno, ma ci si può sempre rassicurare che 2,50€/settimana non sono poi così tanti e sicuramente arrivare ai concerti dei Crookers già vomitati costa di più.
Il primo mese di abbonamento è scorso via liscio come l’olio, accumulando ascolti dopo ascolti nella foga di tutto il ben di dio a disposizione (N.B. c’è anche tantissima italiana) e procedendo a un graduale, ma ormai definitivo, abbandono del cromato compagno di pirateria di una vita, iTunes.
Ora, vista l’esperienza positiva, sarebbe facile cadere nell’elogio da recensione cinque stelle su Amazon/Ebay, quindi mi limiterò a presentare il pre- e il post- di un caso di abbonamento Premium, il mio appunto, lasciando libero chi legge di trarne le conclusioni.

Il me pre-Spotify era il fruitore musicale assiduo con il pallino dell’indie per lo più straniero e degli ascolti a breve scadenza: il ratio medio di ascolti era stabile sui 15 dischi/mese. Studente squattrinato e perennemente on-the-way, i suoi migliori amici erano diventati presto i siti di filesharing, dai più ostici e cristonati (Upload) a quelli che ormai erano diventati una sicurezza della propria quotidianità (Rapidgator), e naturalmente l’iPod da battaglia. La libreria di iTunes sempre ordinata quindi (tag a posto e copertine tutte se no poi stanno male) non era neanche da mettere in discussione. Nei momenti di maggiore pendolarità universitaria aveva pure istruito la sorella gemella alla sottile arte della pirateria musicale, in modo da coprire eventuali buchi nel flusso d’ascolto.

Il risultato suonerà familiare a chi non è nel mondo dell’editoria musicale e non ha tanti amici con gli stessi presupposti (tradotto: promo e cartelle condivise giganti su Dropbox): troppi minuti di vita persi davanti a captcha fantasiosi e sottili “sistemoni” per incastrare i download in modo da non superare i limiti di tempo e dimensione dei vari siti. Il flusso della materia d’ascolto era spesso incostante e dipendente per lo più da due fattori: “criticità di pendolarità” e “disponibilità di sorella gemella”.

Il tutto cambia con il me-Spotified: il ratio dischi/mese sale a quote critiche vicine alla quarantina, il tempo prima speso sui siti di filesharing viene passato ora sui siti veramente musicali, l’app di Pitchfork permette di rimpolpare comodamente la playlist “to listen”, ci si può sbizzarrire con retro-ascolti (dai momenti nostalgici dei primi anni di fissazione musicale alle inevitabili lacune createsi col tempo), iTunes mai più è stato aperto e playlist varie sono fiorite (“Top 2013” direi che è stata la più gettonata anche tra gli altri utenti).

Vien da sé che ci sono anche dei contro: malgrado la versione Premium permetta di alzare la qualità audio, capita a volte di trovare dei dischi con una qualità piuttosto bassa (il ché può farsi a tratti fastidioso con cuffie/stereo di qualità medio-alta), l’interfaccia dell’app mobile ha sicuramente qualcosa da invidiare a quella delle varie i-saponette Apple (anche se Spotify lascia gestire meglio le singole tracce, permettendo alla bisogna un utilizzo esclusivamente su app mobile), i soldi che veramente vanno agli artisti sono proprio pochi (su internet si parla di circa 0,005€ per ascolto, ma pare che quest’ultimi siano tracciati con precisione certosina anche in modalità offline), chi era abituato al filesharing (o peggio, ai promo) si dovrà abituare ad un certo ritardo (addio dischi un mese prima l’uscita ufficiale) e la sincronizzazione solo wi-fi non può raggiungere di certo le tempistiche di iTunes o del drag&drop.

Ora la domanda a cui tutti vorrebbero rispondere: può davvero essere una rivoluzione nel mondo della compravendita musicale? Senza dimenticare che in altri paesi è disponibile già da un biennio e che il mercato italiano potrebbe avere qualche sua peculiarità, si può provare ad abbozzare qualche risposta. Chi scrive per testate con una reputazione da salvare continuerà a proporre imperterrito l’improbabile scontro “Spotify vs iTunes Store”, per noi altri resta chiaro invece che l’iTunes Store è il furto legalizzato più grossolano della storia e che solo il peggio yuppie americano potrebbe accettare a cuor leggero di spendere 1€ a canzone senza avere neanche il mano il feticcio del CD/vinile.

A chi va a rubare il mercato allora? Io dico, basandomi sul mio caso personale, al filesharing, alla pirateria, ai download illegali. Conviene veramente spendere 10€ al mese ed evitarsi la trafila della pirateria? Se per te gli MGMT sono l’ultima chicca del substrato alternativo e l’ultima volta che hai ascoltato un disco per intero la temperatura media era ancora sui 25 gradi, forse no. E negli altri casi? Sì e puoi pensarci due volte solo se sei veramente povero (e/o studente universitario non-Giurisprudenza/Economia). Pagare tot/mese in cambio di musica illimitata può essere un modo per non far morire di fame i nostri strimpellatori e schiacciatori di tasti preferiti? Credo di sì.

Spotify non ruba di certo ai compratori di dischi (chi li vuole continuerà a comprarseli, non parliamo di quei pezzi da museo dei fissati coi vinili), al massimo a quelli di Apple, che comunque non rischiano certo di morire di fame. Forse ruba a quelli che stanno dietro ai siti di filesharing (quelli tipo il ciambellone di Megavideo, non so se ricordate), che in fin dei conti si arricchiscono riempendoci di inutili consigli su come guadagnare 500€ in un’ora con il mercato azionario o form da compilare per vincere un iPad, congratulazioni!, e speculando sul frutto del lavoro di artisti con cui non condividono nessun merito (gli pagassero la saletta prove, almeno).

Concludiamo. Magari ad una risposta definitiva non ci si arriverà, se non in un’ottica a posteriori molto in là nel tempo. Però l’approccio potrebbe essere quello giusto. Di certo vanno riviste alcune cose: la proporzione di guadagno del fornitore e quello dell’artista, magari rendere anche più facilmente fruibile il servizio per gli under-20 non ancora provvisti di MasterCard (le Spotify Card ci sono già, basterebbe trovarle in posti comodi per un teenager (italiano), che ne so, alla Feltrinelli o da H&M). Però la strada è quella, c’è poco da fare. Chi si mostra scettico, continuando a scaricare dai siti di filesharing, può farlo (e non si prende neanche il mio biasimo, tutt’altro) ma è innegabile che sia solo il mettere la testa sotto la sabbia nei confronti di un problema che sconvolge il mondo della musica post-00 da più di un decennio, ma a cui sono arrivate fin’ora solo soluzioni posticce e più simboliche che altro, con l’effetto indesiderato di lasciare la più grande fetta di guadagno alla pirateria non autorizzata.

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