Il percorso di Stefano Cavanna è stato sempre improntato alla ricerca di quella che, in modo frettoloso e superficiale, siamo soliti identificare come musica “di nicchia”, e che invece crediamo di poter inquadrare come la necessità di andare a scoprire quelle che sono le dinamiche sonore a lui più intimamente affini. Partendo proprio dalle pagine di InYourEyes, ha infatti dapprima dato vita a MetalEyes, per poi dedicarsi in modo totalmente esclusivo a Mournful Sounds, spazio che tutt’ora dirige, e in cui racconta prevalentemente funeral e death doom.
Da qui a pensare di realizzare un volume come “Il Suono del Dolore – Trent’anni di Funeral Doom” il passo è (relativamente) breve. Buon per noi che la Tsunami abbia scelto di sposare il risultato delle sue fatiche, altrimenti non avremmo tra le mani quello che ad oggi possiamo considerare come il volume “definitivo” sul funeral doom metal.
Parlare di musica, immaginando di realizzare addirittura un libro, è un’impresa che solo una mente folle può pensare di mettere in pratica. Ci sarà sempre qualcuno che, forte dello smisurato superego di cui è dotato, sosterrà di saperne di più, e non mancherà di farlo notare in ogni occasione. Oggi siamo tutti intenditori/musicisti/scrittori/artisti. La tuttologia è la malattia più diffusa, anche se l’OMS ancora non l’ha inclusa nelle patologie che colpiscono più di frequente. La realtà è un’altra. Siamo soltanto infelici e insoddisfatti, e lo dimostriamo soprattutto quando qualcuno riesce in qualcosa che avremmo voluto fare noi, pur non avendone le capacità. Quando cioè la distanza dalla realtà ci porta a continuare a sovrastimare quelle che sono le nostre potenzialità.
Detto questo, passando al libro, non possiamo non sottolineare come l’aspetto prettamente estetico sia la prima cosa che colpisce. Con una grafica totalmente in bianco e nero, “Il Suono del Dolore – Trent’anni di Funeral Doom” riesce ad attrarre immediatamente, finendo per incuriosire anche chi se lo ritrova tra le mani casualmente mentre sfoglia le novità in libreria.
Per quello che invece riguarda il testo, vero grande protagonista di questa nostra analisi, partiamo dalla nota introduttiva, che lo inquadra come “un excursus senza precedenti nel genere musicale più doloroso e cupo di sempre”. Difficile non essere d’accordo. Sia sul fatto che il genere si possa annoverare tra quelli più “intensi” a livello emotivo ancor prima che sonoro, sia sul fatto che ad oggi non risulti reperibile nessun altro tentativo di inquadrare un movimento con questa portata e questa completezza.
Complimenti quindi a Stefano Cavanna per essere riuscito a sondare in profondità – in pieno stile funeral doom appunto – le più significative “scene” a livello mondiale, portandoci a conoscere anche quelle più “lontane”, non solo geograficamente, come le realtà asiatiche e africane. La sua analisi parte con una doverosa presentazione in cui racconta le origini e lo sviluppo del fenomeno, dando spazio alle realtà “storiche” più rappresentative, per poi, in un secondo tempo, guardare alla distribuzione sull’atlante delle varie “scene” venutesi a creare sulla scia degli esempi dei “padri fondatori” di un genere che è in realtà un “sottogenere” di un altro “sottogenere”.
Indipendentemente da come lo si voglia guardare, il volume è l’esito finale di un lavoro tutt’altro che semplice, soprattutto in fase di assemblamento del materiale, che risulta utilissimo soprattutto per tutti coloro che non hanno voluto/saputo/potuto approfondire il discorso da vicino, fornendo un quadro dettagliatissimo di uno scenario sonoro che ha scelto di vivere lontano dalle luci della ribalta.
Interessante l’analisi che guarda al funeral doom come “la deriva del metal probabilmente meno accattivante e più sottovalutata. Musica dallo scarso appeal commerciale per una fascia di pubblico alquanto ristretta e selezionata”. Analisi in cui ci ritroviamo totalmente. Soprattutto per quello che riguarda la scarsa potenzialità in fatto di vendite, che noi siamo soliti definire come “suicidio commerciale”. Poco importa, secondo il nostro punto di vista, che si tratti di dischi che possono avere una diffusione ridotta, ciò che conta è invece percepire quel grido di dolore che rimanda al titolo del volume. Anche perché è in casi come questi che emerge netto il fatto di come la musica possa, anzi debba, essere inquadrata in un modo che esuli dal mero intrattenimento sonoro, spesso privo di spessore intimista.
È proprio su questo punto che vogliamo ragionare. Sulla potenzialità del funeral doom di riuscire ad arrivare a fondo, sia a livello sonoro che concettuale, dilaniandoci da dentro. Se la musica deve sublimare la quotidianità, che cosa c’è di meglio oggi di un genere che rappresenta l’insoddisfazione verso tutto ciò che ci avvelena costantemente le giornate? Non c’è nulla per cui possiamo pensare di dover essere allegri. La nostra ritrosia verso i contatti umani finisce inevitabilmente per sposare tutto ciò che esprime la sofferenza interiore. Quella reale però, non quella da social network che guarda ai contenuti acchiappaclick. Una realtà veramente “heavy” da sopportare.
Non fraintendeteci però, non vogliamo cucirci addosso un costume da “depressi che ascoltano musica deprimente”. Non ci porterebbe da nessuna parte, fermo restando che non abbiamo intenzione di muoverci dalla stasi in cui ci crogioliamo. È solo la necessità di ritrovarsi in tutto quello che riesce a sfogare le nostre frustrazioni. Non a caso amiamo alla follia il grind core seminale, che ci piace far coincidere come la seconda ondata punk, che a distanza di dieci anni da quella del ’77 ha risvegliato un movimento. Punk ovviamente a livello concettuale, dato che nella sostanza cambiavano i suoni, ma le idee nichiliste restavano le stesse.
In chiusura non possiamo esimerci dal consigliare “Il Suono del Dolore – Trent’anni di Funeral Doom” sia a tutti coloro che amano specchiarsi in questi suoni, che a tutti coloro che finora non hanno preso in considerazione questo filone musicale. C’è davvero molto materiale interessante tra quello che Stefano Cavanna ci raccomanda.