Non accenna a finire il momento di prolifica vena artistica della ormai veterana indie/garage/noise/shoegaze/psych/drone/experimental band inglese Telescopes e del loro factotum, nonché unico membro (fondatore) presente in tutte le incarnazioni del progetto, Stephen Lawrie. Dopo aver pubblicato, nel febbraio di quest’anno, il sedicesimo lavoro sulla lunga distanza, il “lost record” restaurato “Growing eyes becoming string” (al quale va aggiunta la pubblicazione, nel mese di maggio, delle raccolte “Radio sessions (2016-2019)” e quella di rarità rimasterizzate “Editions“) arriva infatti già un nuovo album, “Halo moon“, uscito a fine settembre sulla label tedesca Tapete records.
Il diciassettesimo capitolo della discografia dei Telescopes tenta di stabilire un dialogo con le forze misteriose e magiche che regolano la natura dell’universo, che parla attraverso il cielo scatenando, involontariamente, una rivoluzione partendo da uno stato di trance ipnotica per arrivare a connettersi con l’invisibile e con una nuova dimensione delle coscienze parallele, con la band (vale a dire Lawrie più un numero, sempre variabile e mai fisso-definitivo, di musicisti che registrano con lui) che viene ispirata da una aureola lunare – “Halo moon“, appunto – che sembra arrivata con l’intento di folgorare la composizione di questo nuovo materiale e propiziare la buona riuscita del lavoro in studio.
Dal 1987 a oggi, Lawrie non ha mai smesso di sperimentare diverse soluzioni con la propria creatura sonica, nelle varie declinazioni della (neo)psichedelia, e ogni album cresce con gli ascolti, rivelando sfaccettature sempre differenti, e anche “Halo moon” non fa eccezione. Si passa dalla trasandata opener “Shake it all out” (uno psych-blues che non sfigurerebbe nel repertorio dei Reid brothers) all’armonica che scandisce il sognante e incantato blues di “For the river man“, con un Lawrie perfettamente a suo agio nel ruolo di cantastorie stonato, dalle ninne nanne narcotiche di “Come tomorrow” e della title track alle altre nenie psichedeliche “Along the way” e “Lonesome heart“, in cui l’organo, la chitarra e la voce del cerimoniere Lawrie sembrano fluttuare verso altri mondi, mentre il groove cinematico di “Nothing matters” si spinge fino a concludere col monolite acido, ipnotico e sinistro di “This train rolls on“, un treno che va avanti alimentato da un latente senso di violenza.
Le strutture delle canzoni sono minimali, le chitarre si dissolvono nel feedback e nelle dissonanze, e le trame sonore affogano il blues nel fuzz e in beat ritmici scarni e meccanici à la Suicide in slow motion, disegnando paesaggi nebbiosi (e sentieri che si inseriscono in territori già battuti, in passato, da Spacemen 3 e Spiritualized) dentro i quali si staglia, inafferrabile, il mormorio sonnolento e glaciale di Stephen Lawrie. Che il cielo ci assista in questi tempi bui. Dig the déjà voodoo.