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Recensione : THE BEVIS FROND – FOCUS ON NATURE

THE BEVIS FROND – FOCUS ON NATURE

Nick Saloman è uno di quei musicisti che, a dispetto delle mode e dell’attualità del contesto storico-musicale (e nel fare ciò, per fortuna, è ancora in buona compagnia: Billy Childish, Graham Day, Robyn Hitchcock, Anton Newcombe, Mike Stax, Robert Pollard…) è sempre andato dritto per la sua strada ed è ormai arrivato a quasi quaranta anni di percorso col moniker Bevis Frond, progetto solista (poi diventato band) col quale ha messo in pratica – attraverso una prolifica discografia che, negli Eighties e Nineties, viaggiava al ritmo di uno/due Lp all’anno – il suo desiderio di fondere le sue ispirazioni musicali, prettamente statunitensi (il blues elettrico psichedelico di Jimi Hendrix, il folk/psych/jangle pop dei Byrds il punk rock dei Wipers) in una formula indie/alternative/neopsichedelica dal feeling British, influenzando i colleghi della contemporanea scena “indie rock” d’oltreoceano (Pavement, Dinosaur Jr., Lemonheads) e britannici (Teenage Fanclub) .

Quest’anno Saloman/Bevis Frond ha pubblicato “Focus on nature“, ventinovesimo studio album (!) uscito su Fire records e arrivato a tre anni di distanza da “Little eden” (composto e concepito durante il periodo pandemico).

Focus on nature” è un mastodontico comeback strutturato come un doppio album, contenente ben diciannove brani, per una durata di settantacinque minuti (un numero che, implicitamente, porta con sé la richiesta di un ascolto attento e non superficiale dell’opera) in cui, però, non ci sono cali di tensione e la scrittura è di buon livello, a dimostrazione del fatto che il chitarrista/frontman/songwriter inglese (qui coadiuvato da Bari Watts e Paul Simmons alle chitarre, Dave Pearce alla batteria, Louis Wiggett al basso e Debbie Wileman alle harmony vocals) nonostante oltre quattro decadi di attività sul groppone, resta sempre una penna ispirata dal talento brillante.

Non un vero e proprio concept album, ma un filo conduttore ricorrente lungo il long playing c’è e tratta (come suggerisce il titolo del full length, del resto) di tematiche ambientali e le preoccupazioni di Saloman sul futuro del nostro pianeta, sempre più minacciato dalle azioni nocive dell’essere umano, tra global warming e rischi di catastrofi apocalittiche: ne abbiamo prova nell’opener “Heat” (nervoso inizio tra saliscendi hendrixiani, che ritroviamo anche in “The hug“) o nello psych-folk della title track e di brani come “Hairstreaks“, “Leb off” e “Happy wings” ma, al di là dell’aspetto lirico, balza all’orecchio il fatto che Saloman si diverta ancora a giostrare e giocare con varie sfaccettature soniche: si pensi all’art-punk asciutto di “God’s gift” e “Jack immortal” e al garage rock muscolare di “Empty“, al pop malinconico di “Vitruvian man“, alla sensibilità psych-pop di “A mirror” e “Here for the other one” (pezzi che non avrebbero sfigurato nel repertorio dei REM) ad armonie paisley underground che farebbero invidia ai Dream Syndicate (“Wrong way round“) divagazioni Floydiane in “Mr. Fred’s disco“, una “Maybe we got it wrong” che sembra uscita dal canzoniere solista di J. Mascis, ballad di struggente bellezza come “Brocadine” e cavalcate rock dal sapore Seventies (“Big black sky“).

La conclusione non la facciamo troppo lunga perché, purtroppo, sappiamo già che questo album e Saloman resteranno un culto sonoro per poche migliaia di appassionati, e i Bevis Frond continueranno a essere cagati meno di zero dalle masse, ma lagggente può tranquillamente andare a farsi fottere e a rincoglionirsi spendendo millemila euro/dollari/sterline/allacciascarpa/scarpallaccia/tarapiatapioco/sbiriguda/comesefosseantani per i concerti di Taylor Swift, facciano pure, tanto non sapranno mai che la vera qualità è da ricercare altrove, come ad esempio tra i solchi di “Focus on nature”.

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