A me piacciono i dischi senza trucchi e senza inganni. Mi piacciono i dischi onesti. Quelli che quando li senti avverti subito che, chi lo ha registrato come parte attiva, ha suonato come se lo stesse suonando dal vivo, di fronte ad un pubblico, di appassionati o di distratti avventori poco importa, con l’intento di parlare solo per se stesso, perché quello che suona non è una successione di accordi, una serie di percussioni, frasi ad effetto, ma è la storia della sua vita; non vuol piacere e non vuole nemmeno farti passare una serata piacevole, vuole solo essere capito e risultare credibile perché, essere credibile, vero, genuino, è la base su cui si fonda la musica dei Cogs.
Nessun trucco, nessun inganno.
“White Boy White Girl” dei Cogs esce a cinque anni di distanza da “Clamford”, nel mezzo scorre non un fiume ma un oceano:
pandemie, guerre, crisi economiche, crisi di governo e, per non farsi mancare nulla, anche un cambio di cantante. Quello che non cambia è l’approccio, il metodo, la dedizione e una fede inattaccabile verso il Garage Punk più scarno possibile ed immaginabile; pezzi tirati e aggressivi ma che al contempo sanno essere anche ballabili; suoni secchi ed immediati, canzoni strofa ritornello e dritti al punto. Nessun trucco nessun inganno. Appunto.
Non è certo facile restituire, dopo decenni di pratiche Garage, un suono, un approccio, uno stile entro il quale parrebbe esser stato detto tutto: i Cogs dimostrano di no, il capitolo non è certo chiuso, ma è nella sua ripetizione che si aggiunge, man mano, anche la novità: la novità è chi suona, chi canta, chi, in ultima fase, si racconta, sia nel suono che nel concetto, a mezzo di questi solchi; il Garage Rock è una pagina intonsa di quaderno, i suoi limiti sarebbero solo le linee orizzontali che danno un metro alla scrittura;
ma si può comunque scrivere in obliquo, al contrario, dall’alto verso il basso; quelle righe sono la grammatica/matematica che si può, volendo, seguire per una questione di coerenza e dialogo con l’ascoltatore, ma nulla impedisce all’estro di essere tale.
I Cogs hanno scelto una via lineare, rimangono sulle righe e ripongono il loro estro nella scrittura di canzoni, come si diceva, tirate ed aggressive ma nelle quali è impossibile non cogliere la voglia di vivere, il romanticismo dei fatalisti, di persone che nonostante i limiti e le difficoltà non hanno mai smesso di crederci: l’irruenza della vita quando si abbatte, impietosa, sul tessuto grigio della routine.
È una gioia per le orecchie sentire tanta vitalità sprigionarsi, senza trucco né inganno, dallo stereo: l’iniziale Cheap Night Out è un minuto e mezzo durante il quale si mettono subito le cose in chiaro, un gioiello Punk incastonato in una notte fatta di circoli Arci, personaggi astrusi coi gomiti piantati sul bancone, una sbronza da 10euro tra whisky del discount e voglia di dimenticare la mascherata della vita di tutti i giorni; c’è allegria nell’atmosfera, il solo impegno da rispettare è divertirsi e fare molto con poco, che poi, di base, è la filosofia musicale entro cui si muovono e si autogestiscono i Cogs:
pezzi brevi ma ad alta densità di suggestione. One Foot in the Grave e Straight Shooter (i deliziosi echi ‘60’s del cantato emergono dall’immediatezza della base strumentale) e servono da introduzione al pezzo forte, a parer mio, del disco: Confusion#1 è un capolavoro di Garage mezzo punk mezzo psichedelico rubato ad una raccolta di Pebbles.
Impossibile star fermi su White Girl, un Beat ballabile e grezzo; in questo punto del disco, e siamo solo a 5 su 11, mi rendo conto che per il momento questo potrebbe essere il miglior disco degli aretini; Johnny Peacock, Wrong, il cattivissimo Punk ‘n’Roll di No Rights e la ripresa-senza-pretesa di You’re Gonna Miss me dei 13th Floor Elevators (qui veramente danno la stoccata finale: come riprendere un brano che conta una serie infinita di tributi e farlo proprio, completamente immerso e coerente con lo stimmung del disco) mi convincono definitivamente che è così: al momento questo è davvero il miglior disco dei Cogs.
Il nuovo cantante spicca particolarmente poiché riesce a donare dei toni piuttosto particolari all’intero insieme: carattere forte e impronta decisa, tra sfumature anni ’60 e piglio bieco e beffardo da primo Punk Rock australiano (Chosen Few, Saints, Radio Birdmen…). Davvero un ottimo acquisto in formazione.
Gli ultimi due pezzi, il disperato Punk Rock di In The Mood e lo stile impeccabile, in forte odore di Heartbreakers, di White Boy, sono il colpo di coda che conferma la bontà del disco. Si, questo è davvero il migliore disco dei Cogs fino ad ora.
In questi ultimi due anni, segnati da eventi che, dicevano, ci avrebbero reso migliori, in realtà ho visto solo l’egoismo tramutarsi in egotismo e insulsi svaghi borghesi venir promossi a necessità primarie (il ristorante, il natale in montagna, le ferie in Sardegna alla corte di Briatore).
L’unica cosa che mi ha regalato un sorriso e che mi ha convinto a non disperare è il notare come ha reagito l’Underground: a livello stilistico i dischi ben fatti sono aumentati, molta gente ha continuato a organizzare, produrre, distribuire; sono nati nuovi gruppi, sono tornate le fanzine in formato cartaceo e mi pare proprio che nel giro ci sia come un rinnovato entusiasmo;
questo nonostante le elezioni, l’emergenza climatica e la volontà politica di mantenere il modello neoliberista in vita a tutti i costi nonostante il suo evidente declino.
Son dischi come questo che mi fanno ancora credere che qualcosa si può fare, che non tutto è finito: finché in giro ci saranno persone come i Cogs non ci si può sentire soli, isolati, incompresi; è davvero impossibile.