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Recensione : THE MEN – NEW YORK CITY

Tutte caratteristiche che ho ritrovato in "New York City", nuovo album dei garage rockers statunitensi Men, sulle scene da ormai tre lustri e giunti oggi al nono album ufficiale, uscito a inizio mese su Fuzz Club Records (e che segna il debutto del quartetto di Brooklyn sull'etichetta inglese) e arrivato a tre anni dall'ultima fatica discografica "Mercy".

E’ così che un buon disco di rock ‘n’ roll dovrebbe sempre suonare, cazzarola! Mezz’ora o poco più di durata, chitarre sguaiate (ma senza assoli interminabili stile onanismi tecnici prog. rock/metal) vocals urlate e sgraziate (fanculo il “bel canto” pulito e rassicurante, pochi intellettualismi) brani che non vadano oltre i tre minuti (ove è possibile) nella maggioranza del lotto, una registrazione sonora ruspante (se non tendente alla bassa qualità) e una sezione ritmica essenziale ma esuberante. Tutte caratteristiche che ho ritrovato in “New York City“, nuovo album dei garage rockers statunitensi Men, sulle scene da ormai tre lustri e giunti oggi al nono album ufficiale, uscito a inizio mese su Fuzz Club Records (e che segna il debutto del quartetto di Brooklyn sull’etichetta inglese) e arrivato a tre anni dall’ultima fatica discografica “Mercy“.

Un Lp che, già dalla copertina spartana, che riproduce un rustico drumkit (che emana un puzzo di ore in sala prove e concerti in piccoli pub e locali fumosi e alcoolici, col palco a mezzo metro dal pubblico) aveva attirato la mia attenzione, poi i miei timpani hanno iniziato a inturgidirsi a mo’ di eccitazione sensoriale quando è partita l’opening track “Hard Livin’ “, con un piano frenetico sullo sfondo e un trascinante groove alla Scandinavian rock (Hellacopters, primi Hives, Turbonegro) che si protrae anche nella successiva “Peace of Mind” e in “Echo“, alla quale si aggiungono anche echi dei concittadini newyorchesi New York Dolls che demoliscono il Mercer Arts Center dopo essersi fatti una pera nei suoi cessi, e che si mescolano con un Chuck Berry imbottito di anfetamine (in apertura di un concerto dei Buzzcocks) in “God bless the U.S.A.“. Dopo questa botta di adrenalina, le mie orecchie erano già pronte per l’orgasmo, che sarebbe arrivato di lì a poco, ascoltando le restanti tracce del full length, ingravidate dal vizioso boogie/(proto)punk stoogesiano “Eye” e dal treno in corsa di “Eternal Recurrence” che mischia Who e MC5, e in seguito dal trittico tossico “Round the corner“, “Through The Night” e “Anyway I found you“, nei quali fa capolino il compianto fantasma del paisà Johnny Thunders a duettare con Rob Tyner e Fred “Sonic” Smith, e qui il mio apparato uditivo era già passato a fumare la classica (virtuale) sigaretta post-prestazione, lasciandosi cullare dalla conclusiva “River Flows“, nella quale sembra di scorgere un omaggio a Mark Lanegan, agli Screaming Trees e a quell’epoca irripetibile rappresentata dall’alternative rock dei Nineties.

Nick Chiericozzi, Mark Perro, Kevin Faulkner e Rich Samis abbandonano (per ora) gli esperimenti degli ultimi album e tornano al frastuono che aveva contraddistinto i loro esordi, riassemblando un magma sonico incandescente che fa rievocare, con la mente e col cuore, e rivivere idealmente l’atmosfera minacciosa del rock ‘n’ roll e delle decadenza newyorchese che ogni sera, nei Seventies, metteva a rischio l’incolumità degli avventori che bazzicavano il CBGB sulla Bowery (molto prima che un facoltoso stilista trasformasse quell’iconico locale in un lussuoso brand outlet per viziati figli di papà che non hanno un cazzo da spartire col rock ‘n’ roll) tra una scopata e una spada in bagno, lo slalom tra la folla per cercare di evitare lo sterco canino e Hilly Kristal a darti gli alcoolici dietro al bancone del baretto, mentre sul minuscolo palco si esibivano i Ramones, i Dead Boys, gli Heartbreakers, i Misfits o i Cramps, e la gente si agitava e saltava e faceva grondare di sudore quella leggendaria (ex) topaia. Riscoprire le radici come un modo di ribellarsi alla gentrificazione e alla anestetizzazione fighetta che ha colpito, negli ultimi due/tre decenni, la New York più verace, quella popolata da club e bar di quart’ordine e da musicisti young, loud and snotty che mettevano a soqquadro l’etica e l’estetica dell’industria discografica. Rock ‘n’ roll as an act of resistance!

 

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