Inutile e superfluo dire quanto – sia per chi scrive queste righe, che per la schiera di negletti che sono solito seguirlo – possa significare un nuovo disco dei Prisoners, fosse pure per i quasi quarant’anni che lo distanziano dal suo predecessore.
Per chi è nato e cresciuto musicalmente con il garage revival, un nuovo vagito della band del Midway non può che essere una vera e propria rivelazione.
I nostri si ripresentano alla folta – ma ahimè non foltissima – schiera dei loro affezionati con quattordici pezzi che – leggermente depurati dall’irruenza degli esordi – confermano una capacità di scrittura e di esecuzione che ha pochi pari nel mondo.
A dar fuoco alle polveri ci pensa This Road Is Too Long brano energico il cui incedere ricorda un po’ (decisamente) gli Stones di Satisfaction, lo seguono a ruota il caracollare malinconico tipicamente british di If I Had Been Drinking e Going Back che rimanda direttamente agli Who più quadrophenici, mentre Morning Star evoca struggenti ricordi. Something Better è puro hammond beat e The Green Meteor uno strumentale dal groove strabiliante, mentre Go To Him riporta il trend verso binari più volitivi (per intenderci, quelli di scuola Smoke / Small Faces). Beauty Hides The Truth dimostra quanto sia nelle corde della band lo scrivere canzoni perfette e ritengo sia la più pregnante fra quelle in scaletta, e infine, a chiudere il tutto, troviamo Hold Tight, brano molto evocativo e dalle suggestioni vagamente filmiche.
In un mondo migliore i Prisoners sarebbero stati delle star, in questo invece non è andata così e forse non era neppure nei loro piani e nelle loro intenzioni; voglio romanticamente pensare che aver, da sempre, ammaliato i cuori di chi li segue, sia per loro un’immane soddisfazione.
The Prisoners