Chris Jack, evidentemente, ci ha preso gusto. Dopo aver inciso coi suoi Routes, nel 2022, un tribute album, in chiave surf strumentale (incensato nientemeno che da Iggy Pop nel suo programma sulla BBC Radio Music 6) ai più famosi esponenti dell’elettronica del Krautrock germanico, i Kraftwerk, quest’anno i nostri si sono cimentati nel registrare un altro disco (il loro quattordicesimo complessivo, che arriva a un anno di distanza dalla doppietta di Lp “Get Past Go!” e “Lead Lined Clouds“) composto interamente da cover rilette di nuovo in ottica instrumental surf rock, stavolta dedicato agli amati Buzzcocks, veterana band inglese tra le prime in Inghilterra a essere pensata come formazione punk rock sulla scia dell’ormai storico concerto dei Sex Pistols al Free Lesser Trade Hall di Manchester nel giugno 1976 che folgorò i presenti accorsi e poi ispirò un’intera generazione di giovani a mandare affanculo l’ordine costituito borghese, le rockstar miliardarie che si atteggiavano a dei scesi in Terra e i vecchi dinosauri del progressive rock per tornare a una musica più semplice, sporca (tre accordi, niente assoli né artifizi né pacchianate virtuosistiche) rozza, sgraziata, al rock ‘n’ roll stradaiolo della working class che si riappropriava di tematiche reali e parlava dei problemi veri della gente comune nella vita ogni giorno (e non più di groupies, ville da nababbi, macchinoni, soldi, fate, unicorni, arcobaleni, spade, draghi, elfi, folletti e altre futilità fantasy da ricchi viziati che vivono in una torre d’avorio, completamente fuori dalla realtà quotidiana) a un ritorno dell’uguaglianza tra pubblico e musicista, senza barriere né palchi a chilometri di distanza dall’audience, un tornare all’umanizzazione di chi performava su un palcoscenico (spesso delle pedane di legno pericolanti in piccoli e sudici club) e si metteva allo stesso livello di chi era venuto ad ascoltarlo perché non si riteneva superiore alla massa; un rifiuto del patinato rock da folle oceaniche osannanti nelle arene e negli stadi e un recupero delle radici del R’N’R suonato nelle cantine da innumerevoli garage bands amatoriali con strumenti da pochi soldi, e abbracciare l’universo del punk rock, a conti fatti l’ultima rivoluzione del Novecento in fatto di musica, estetica (che tendeva a provocare, shockare, spaventare l’autorità e mettere in discussione e oltraggiare tutto ciò che era considerato di buon gusto dalla castigatissima società inglese/britannica del tempo, imbevuta di austerità monarchica, che infatti era disgustata dall’ondata di esuberante goliardia, violenza gratuita generalizzata, borchie, creste e spille da balia generata dalle intuizioni situazioniste di Malcolm McLaren e dalla sua combriccola di adorabili cialtroni, costantemente visti come una minaccia per il cosidetto “ordine pubblico”) fenomeno mediatico e di costume, ma anche e soprattutto a livello etico e concettuale, con l’adozione della filosofia Do-It-Yourself a stile di vita (e di cui i Buzzcocks furono tra i precursori nella scena, autoproducendo il loro primo materiale, l’Ep “Spiral Scratch“).
La scorsa settimana i Routes (confermandomi la piacevole abitudine di avere un appuntamento, almeno una volta l’anno, con l’arrivo di nuove uscite rilasciate dai garage/psych rockers brit-giapponesi) hanno pubblicato, su Topsy-Turvy/Soundflat Records, questa dichiarazione di amore per il gruppo mancuniano (orfana, dal dicembre 2018, del suo frontman Pete Shelley, e oggi ancora attiva, nel suo ricordo, per volere del chitarrista Steve Diggle) in un disco ad hoc, intitolato “Reverberation Addict“, la cui copertina (curata dall’icona del design grafico Malcolm Garrett , al lavoro con gli stessi Buzzcocks all’epoca) prende spunto da quella del celebre singolo dei quattro di Manchester, “Orgasm Addict“, che utilizzava le grafiche DIY realizzate dall’artista Linda “Linder” Sterling (in seguito frontwoman nella band post-punk Ludus). Affetto condiviso pienamente anche da chi vi scrive, in quanto adoro i Buzzcocks e la loro miscela di punk rock e fragranze pop, contraddistinta da tempi medio/rapidi e sonorità aspre mitigate da uncini melodici perfetti e fresche armonie che ingentilivano il frastuono di chitarre e sezione ritmica: una formula che ha fatto scuola, specialmente con i loro primi album, quelli dei late Seventies prima del temporaneo scioglimento.
Il trio (Chris Jack – chitarra, basso, percussioni e organo; Toru Nishimuta al basso e Bryan Styles alla batteria) infatti attinge proprio dal repertorio più conosciuto e iconico dei Buzzcocks di fine anni Settanta per riproporne quindici brani riarrangiati, come già detto in precedenza, in veste surf rock strumentale (alla maniera di Ventures, Dick Dale, Terauchi Takeshi, Link Wray, Surfaris, Astronauts e altri) detto che scegliere solo quindici pezzi immagino sia stata una scelta di scrematura abbastanza difficile, vista la bontà del materiale originario che invogliava a inserirne molti di più, il risultato finale è gradevole e anche divertente da ascoltare. A partire dal classico dei classici, “Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve)” pubblicato in precedenza come singolo e qui posto in apertura del long playing (di cui i nostri avevano già offerto un antipasto in un Ep) e nelle mani di Chris e soci si trasforma in un pezzo da colonna sonora che farebbe da cornice a un ipotetico “Kill Bill vol. 3” di Quentin Tarantino. Il florilegio di twanging, tremolo, licks e reverb(erations) continua lungo tutto il full length e, pur mantenendo un’immediata riconoscibilità rispetto agli originali, ogni rifacimento ha una sua personalità ben definita, e allora si passa attraverso “Noise Annoys“, la succitata “Orgasm Addict” che nel remake Routesiano non avrebbe sfigurato nel repertorio di Dick Dale, una “Just Lust” a metà strada tra sonorità spaghetti western e Bo Diddley, una “Love You More” rallentata e ammantata di malinconia da soundtrack Morriconiana, mentre “Something’s Gone Wrong Again” possiede la giusta grinta per fare da sottofondo alle cavalcate sulle tavole da surf nelle acque del Big Sur californiano. “You Say You Don’t Love Me” chiude la prima facciata ed è rimaneggiata quasi al punto da sembrare un lento da ballo di fine anno al liceo/high school. “Whatever Happened To?” apre il lato B e anch’essa riceve una surf treatment fatta a regola d’arte, con ogni dettaglio melodico ben rifinito e al posto giusto. E via così anche in “Everybody’s Happy Nowadays“, nella sprintante “Fast Cars” che sarebbe stata perfetta come main theme di un drag race movie, nello spaghetti western à la Morricone in cui viene tramutata “What Do I Get?“, negli altri cavalli di battaglia “Lipstick“, “Oh Shit!“, “Fiction Romance” e la conclusiva “Promises“, fedeli allo spirito dei brani ormai oltre quattro decadi fa, eppure plasmate in modo così certosino da rivivere in una nuova dimensione e brillare di luce propria.
Non so voi, ma a me tutto questo scrivere di queste cover (e canticchiare le parti vocali originali, mentre le ascoltavo) ha fatto venire voglia di rimettere su anche i dischi dei veri Buzzcocks, pertanto torno a spararmi “Spiral Scratch”, “Another music in a different kitchen“, “Love bites“, “A different kind of tension” e “Singles going steady” a volumi insostenibili. Se questo era uno degli intenti dei Routes, direi che ci siano riusciti in pieno.
TRACKLIST
SIDE A:
1. Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve)
2. Noise Annoys
3. Orgasm Addict
4. Just Lust
5. Love You More
6. Something’s Gone Wrong Again
7. You Say You Don’t Love Me
SIDE B:
1. Whatever Happened To?
2. Everybody’s Happy Nowadays
3. Fast Cars
4. What Do I Get?
5. Lipstick
6. Oh Shit!
7. Fiction Romance
8. Promises