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Recensione : THE ROUTES – SURFIN’ PLEASURES

THE ROUTES – SURFIN’ PLEASURES

Non c’è due senza tre. I Routes confermano la piacevole abitudine di avere un appuntamento, ogni anno, con chi vi scrive per trattare l’arrivo di loro nuove uscite, e questa volta i garage/psych/surf rockers anglo-giapponesi sono tornati con un altro album di cover. Dopo aver infatti già inciso, nel 2022, un tribute album, in chiave surf strumentale (incensato da Iggy Pop nel suo programma sulla BBC Radio Music 6) ai più famosi esponenti dell’elettronica del Krautrock germanico, i Kraftwerk, e la pubblicazione, l’anno scorso, di un disco composto interamente di cover rilette, di nuovo in ottica instrumental surf rock, dedicato agli adorati pop-punkers inglesi Buzzcocks, a ‘sto giro i nostri hanno sfornato dodici riproposizioni (che vanno a formare il loro quindicesimo full length complessivo) di brani dei Joy Division, in un nuovo tribute cover album incentrato sull’iconica band di Manchester, simbolicamente intitolato “Surfin’ pleasures” e uscito la scorsa settimana su Topsy Turvy/Soundflat Records.

Il trio brit-jap (formato dal frontman e membro fondatore Chris Jack alla chitarra, basso e percussioni, coadiuvato da Toru Nishimuta al basso e Bryan Styles alla batteria/percussioni) dichiara il proprio amore per il seminale gruppo guidato dalla chitarra essenziale e tagliente di Bernard Sumner, dal basso portentoso di Peter Hook, dal drumming solido di Stephen Morris e dal canto cavernoso, decadente e straziato del compianto frontman, dall’anima tormentata, Ian Curtis (che, a cavallo tra Seventies ed Eighties, con all’attivo un Ep e due soli album ufficiali, “Unknown pleasures” e “Closer” – più le raccolte postume uscite negli anni – è stato tra i principali artefici della ridefinizione di un sound e dell’estetica in quel movimento sonoro e di idee ribattezzato “post-punk” che, mettendo in discussione la natura chitarrocentrica del rock ‘n’ roll, democraticizzava il rapporto tra gli strumenti suonati dai musicisti, dandogli uguale spazio e dignità, conferendo specialmente ai bassisti un inedito ruolo di primo piano, subito dopo l’implosione della prima ondata “storica” del punk rock 1976-1978, affermandosi in Inghilterra – e, a macchia d’olio, anche nel resto d’Europa, prendendo piede soprattutto in Italia nella prima metà degli anni Ottanta – e influenzando migliaia di ensemble venuti dopo di loro, in una parabola simile a quella dei Velvet Underground, fatta di pochi dischi in una manciata di anni, ma che hanno disegnato nuovi mondi e ispirato intere generazioni di giovani musicisti, un percorso folgorante, ma interrottosi troppo presto, col suicidio di Ian Curtis nel maggio del 1980, purtroppo) rendendogli omaggio con la destrutturazione sonica di dodici brani del repertorio dei mancuniani, riarrangiati, as usual, in veste surf rock strumentale (alla maniera di Ventures, Dick Dale, Terauchi Takeshi, Link Wray, Surfaris, Astronauts e altri).

The Routes - The Routes - Surfin' Pleasures

Fa un certo effetto ascoltare classiconi come l’immortale “Love will tear us apart“, o “She’s lost control” e “Transmission” sottoposte al surf treatment operato dai Routes, così come altri pezzi epocali come “Ceremony“, “Passover“, “A means to an end“, “Isolation“, “Dead souls” o “Atmosphere” spogliate della drammatica visceralità dell’ugola di Curtis, centrifugando le ritmiche le melodie delle canzoni originarie per trasformarle in entità Sixties retro surf rock fritte nelle reverb(erations). Come accaduto già per le altre due prove dei remake albums precedenti, il consueto florilegio di riverberi, twanging, tremolo e licks conferisce una personalità ben definita alle tracce che brillano di luce propria, pur mantenendo un’immediata riconoscibilità rispetto alle originali, e suona alquanto bizzarro scoprire che la musica dei Joy Division, che di certo non avevano un approccio ottimistico alla vita (almeno a livello lirico) in realtà non sfiguri affatto, se inserita in un contesto più spensierato, tramutandosi in potenziali soundtrack di un drag race movie, temi da beach party, o sottofondo alle cavalcate sulle tavole da surf nelle acque dell’oceano. Il tutto impreziosito dalla copertina disegnata dagli iconici graphic designer Malcolm Garrett e Peter Saville, con quest’ultimo che ha curato il design e l’artwork (nel 1979) del vero “Unknown pleasures”, prendendo spunto dalla sua nota produzione per ricreare gli interni del long playing e partendo proprio dal disegno di quella copertina per modificare l’opera ispirata all’artista Bridget Riley, trasformando le linee del pulsar della nota front cover nell’onda sonora di una tanica di riverbero.

L’esperimento è ben riuscito e, ascoltando queste riletture, è probabile che nelle nostre menti baleni l’idea di immaginarsi un universo parallelo in cui Ian Curtis sia nato in California (e non nella grigia e perfida Albione) e che invece di prediligere letteratura e poesia e ispirarsi alla triade Morrison-Bowie-Iggy, corra su spiagge assolate a inforcare la tavola da surf per inseguire e affrontare le onde dell’oceano. Chissà, magari questo alter ego si sarebbe salvato dai suoi fantasmi. Surf won’t tear us apart.

TRACKLIST

SIDE A:
1. Love Will Tear Us Apart
2. Means To An End
3. Digital
4. These Days
5. Passover
6. Atmosphere

SIDE B:
1. Transmission
2. Ice Age
3. She’s Lost Control
4. Isolation
5. Dead Souls
6. Ceremony

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