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Recensione : THE TELESCOPES – GROWING EYES BECOMING STRING

Solo alcuni mesi fa avevamo scritto del momento di prolifica vena artistica dei Telescopes e della loro pubblicazione più recente, l’album “Of Tomorrow“, anticipando il fatto che fosse già in programma un’altra imminente uscita, che infatti si è palesata, il mese scorso, con la comparsa di “Growing eyes becoming string“, sedicesimo lavoro sulla lunga distanza della ormai veterana indie/garage/noise/shoegaze/psych/drone/experimental band inglese capitanata dal frontman e polistrumentista Stephen Lawrie, ad oggi l’unico membro presente in tutte le incarnazioni del progetto.

Il disco, pubblicato su Fuzz Club Records, non è un vero e proprio long playing di nuovo materiale, ma si tratta di un “lost record”, un Lp registrato nel 2013 e creduto perduto per quasi un decennio, ma poi ritrovato e ora ritornato ufficialmente in vita. Si tratta(va) di sette brani registrati in due differenti sessioni, tra Germania (ai Cobra Studios di Anton Newcombe a Berlino) e Inghilterra (ai Woodhouse studios di Leeds, sotto la supervisione di Richard Formby) insieme al collettivo experimental music londinese One Unique Signal (ossia James Beal al basso, Dan Davis alla batteria, James Messenger e Nick Keech alle chitarre, Byron Jackson alla chitarra/synth) e completati da Lawrie (voce, chitarra e producer) nel suo home studio nel 2022, dopo averli recuperati e salvati da un hard disk lesionato.

E a giudicare dalla bontà del materiale “restaurato”, si può ben dire che sia stata una scelta saggia rimettere mano a queste canzoni ricolme di solido rumorismo e dissonanze (come nel caso del brano “Dead head lights”) otherworldly sounds, sperimentazioni e improvvisazioni, ritmi dilatati, vocals ipnotiche e soffocate, heavy drone rock blow-outs, melodie space e armonie psichedeliche, insomma rispettando il trademark del Telescopes sound di allora e di oggi. “Growing eyes becoming string” è un full length frutto di lunghe jam (all’insegna del “buona la prima”) imbevute di un’anima maudit, cupa, acida e abrasiva. Il consueto trip che trascina l’ascoltatore in un vortice allucinato che riesuma gli spiriti dei Velvet Underground e degli Spacemen 3 (in “Vanishing lines” e “[In the] hidden fields“) aromi Jesus and Mary Chain (“We carry along“) e litanie incessanti in cui i Black Angels si scontrano coi Brian Jonestown Massacre (in “Get out of me“, “What you love” e nella conclusiva “There is no shore“).

Mentre la mandria di pecoroni italioti si scanna sulle telenovele mediatiche riguardanti i divorzi di presunti “vip” (confermando di essere un irrecuperabile popolino che si nutre solo di gossip e canzonette: finito il festivàl di Sanscemo, tra non molto inizierà l’altro circo dell’Eurovision song contest, non ce la faremo mai) noi invece rendiamo grazie, ancora una volta, a Stephen Lawrie per i viaggi lisergici in musica che continua a donarci. L’occhio di Shiva veglia sulla nostra dannazione.

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