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Recensione : Trigger Cut – Rogo

Il trio tedesco di Stuttgart, dopo l'eccellente prova di Buster (2019), persiste nel dar voce alla propria visione musicale non convenzionale – e meno male! – che aumenta la propria forza sonora in modalità raw and alive, un'espressione mutuata da un disco editato dai Seeds (from the first psychedelic Era) e adattabile a questo nuovo e pervicace episodio dei Trigger Cut!

Trigger Cut - Rogo

Il trio tedesco di Stuttgart, dopo l’eccellente prova di Buster (2019), persiste nel dar voce alla propria visione musicale non convenzionale – e meno male! – che aumenta la propria forza sonora in modalità raw and alive, un’espressione mutuata da un disco editato dai Seeds (from the first psychedelic Era) e adattabile a questo nuovo e pervicace episodio dei Trigger Cut!

Durante lo sciorinamento della sfrontatezza ferruginosa ed eversiva, è opinione condivisibile che i suoni taglienti prodotti dagli strumenti, a cui fa capo anche l’influente e delirante voce, siano individuabili singolarmente nel loro battere e nel far sentire l’afflato rabbioso e disperato enunciante un contenuto che deve colpire, scalfire, e che vuole penetrare nel modo più autentico e passionale possibile nel cuore di dei fans. Altrimenti questi pezzi, dei nostri cari amici tedeschi, non avrebbero ragione di essere. Anzi, potrei asserire che i Trigger Cut assomiglino a una catapulta da cui scagliare i nostrani Asino addizionati dall’appeal incendiario dei Rage Against The Machine (perché qui abita il noise da capogiro, Regular Funk), dove deflagrano dagli inferi trame oscure (Coffin Digger) poste tra rock, punk, HC e grunge, certe di animare discese e impennate sensazionali, sebbene ci sia molto altro all’interno di questo lavoro che farebbe declinare su altri ascolti: per esempio i Fall, Tad, Minor Threat (Transmitter), Black Flag, Nirvana, Sonic Youth e roba No Wave; ci si perde nella moltitudine di screziature che originano da questa fonte, ma che lascia attoniti per quanto invece sia autonoma e personale.

La qualità maggiore nell’ascoltare Rogo è che ti aliena, forse perché gli alieni cominciano ad essere una parte cospicua della popolazione mondiale, ma soprattutto ti traghetta nel prendere parte alle irruenze, che in quanto a genuinità e rabbia, nonché alle invenzioni sonore spedite e calamitanti, riescono a generare quel pilastro spirituale di cui oggi si ha rara testimonianza nei reparti uditivi dell’underground.

La strada viene ancor più spianata dal combo noise-aggressor entro quel panorama irriducibile che profuma di combact rock (Oxcart), il placement emotivo ove inquadrarli agevolmente. Direi che le virulente ed esacerbanti traiettorie del gruppo moltiplicano gli ardori e le aderenze verso un’attitudine a scavare la terra dura, e con violenza, sino a scoprire a forza di colpi su colpi (Nutcracker, forse una delle migliori songs iper-svalvolate, e Hooray Hooray) una vena pulsante veritiera e urgentemente espressiva, incarnazione di vita e di sgorgante naturalezza alternativa.

A noi di IYEz risulta costante il noise esasperato ed esplicitato senza troppi artifici, anzi gli artifici qui non esistono affatto, utile a scartavetrare via dall’ascoltatore le concrezioni adipose superflue accumulate da altri ascolti insalubri, intoppanti le sue arterie soniche, e rendendo benignamente fluido l’apparato circolatorio dell’udibile, ora rivivificato dall’armonia estremizzante, chiassosa, e intinto nel savoir-faire strumentale rintracciabile anche lungo la struttura muscolare del corpo vitruviano immortalato da Leonardo da Vinci, ora liberato (attraverso le raffiche di Rogo) dalla sua posizione immemore di fissità (YESSSS Brother) e capace finalmente di contorcersi ferocemente, di fremere e urlare declamando sofferenza, nervosità per la riacquistata indipendenza di movimento. Non più simbolo, ma azione.

Fanno leva la massiccia super ritmica del basso (Daniel W.) e il dirompente quanto intenso drumming (Mat Dumil), suonano insieme come una delizia devastante contornata dalla invasata voce di Ralph Schaarschmidt, anche all’ottima elettrica: i Trigger Cut espiantano a 360° ogni sentimento di falsità e puntano, manco fossero un razzo radiocomandato, direttamente al cuore del target prefissato in cui prevale il potente frastuono; mentre a un ascolto più attento (merito della produzione) balugina il tracciato di quell’inventiva appassionata, rivoltosa, diretta a definire la bellezza dell’album, sfavillante di genuinità esplosive e lacerate in forma iper-rock!

Ci ritroviamo faccia a faccia con la bestia di Rogo, esposta in un guerresco manifesto sonoro che, al pari di un’opera di Haring, di Warhol o di Banksy, svincola dall’inutile a solo vantaggio di una resa verace e incontenibile servita a mitraglia in guisa psycho-killer (tuona, tra i tanti, il capolavoro “Fireworks“).
Se la letteratura, la cronaca, la musica, l’arte non riescono a definire in questo periodo una novità, una sterzata epocale che sia di riferimento per i tempi nuovi, allora fanno bene i Trigger Cut a dissolvere la fuffa prodotta da quei media che si incollano al disperato tentativo, dettato dal pensiero dominante, di costituire coattivamente una forma, una direzione, una way of life artistica compatibile e in linea con la pandemia, sbrindellando così, sino ai minimi termini, l’intelaiatura del superfluo, del fottutamente vano e accomodante, plasmato per tenerci buoni, cioè, ‘fessi & contenti’, nelle nostre mutande.

Neppure io, in verità, ho potuto sottrarmi a un lavoro di così potente impatto che cicatrizzava, forte della purezza della sua marcia erompente ultrasonica, le mie ferite scombussolate dalla cultura pandemica propinata dal Big Brother dell’informazione (Solid State), segnato nell’anima da quei frullati post-covid fatti di imposizioni informative obbligate, e attualizzanti, intente a raccontare panorami nuovi che in realtà non si sono ancora costituiti, non esistono, lasciando di base solamente l’horror vacui (confezionato ad arte) mirato a contenere la follia umana che non è ancora scoppiata a causa della metamorfosi instaurata dal covid-regime e protratta dalla sicurezza di Stato. Cosicché ne faccio bibbia di questa musica, sono grato al buon Bog burgessiano (e intendo il termine BOG inventato dall’autore Anthony Burgess nel libro “Arancia Meccanica”) nell’aver agganciato una simile ruvidezza nutritiva che aspira proprio, per chiarezza di scopi (Way Down The Border), a sgomberare il campo dai ricamini e dalle pseudo-perfezioni appartenenti a una sfera artistica e comunicativa costruita a tavolino (altrimenti di che si parlerebbe in giro?) e che risulta pietosamente inconsistente per l’anima.

Di certo prima o poi la sveglia suonerà per chi dorme sonni tranquilli e rassicuranti indotti dai media, ma se si cerca la pace dei sensi, bene, rivolgersi altrove, poiché qui impazza la lucida stravaganza sovvertitrice.

Un lavoro che avvicina e poi supera in potenza lo splendido underrated Latigo Canta degli spagnoli Giganto!

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