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Recensione : TY SEGALL – THREE BELLS

Sessantasei minuti di durata. E uno potrebbe chiedersi: “Ma si è messo a fare prog. rock?” Per fortuna no, però è evidentente il dato di fatto che a Ty Segall vada ormai stretto l’appellativo/etichetta “garage rocker”, vista l’evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista) sonora che, nel corso dell’ultimo decennio, ha portato il menestrello californiano a inglobare, nella sua proposta musicale solista, una gamma di elementi (prevalentemente cantautoriali, folk, psichedelici e acustici) meno ruspanti e rozzi rispetto ai primi anni di attività in cui il nostro sfornava, a getto continuo, album dal piglio scapestrato e lo-fi strettamente imparentato col garage punk.

Sarà l’avvicinarsi dei quaranta anni e l’aver “messo la testa a posto” nella sua sfera privata (è da poco diventato genitore insieme alla moglie, collaboratrice/musa artistica Denée) ma il frontman e polistrumentista di Laguna Beach, già da qualche disco a questa parte (almeno nel suo percorso solistico) sembra essersi decisamente calmato, prediligendo sonorità più elaborate e “riflessive” che si scontrano con quanto fatto in passato (fino a un decennio fa) e con gli Lp pubblicati con le band di cui è parte integrante (si pensi solo ai FUZZ o THE C.I.A.). E questa tendenza sonora viene confermata dal nostro anche nell’ultima sua creatura in proprio, “Three Bells“, quindicesimo lavoro sulla lunga distanza uscito, a fine gennaio, su Drag City Records.

Coadiuvato dalla Freedom Band e dalla sempre presente Denée Segall (che ha firmato cinque dei quindici brani del long playing) Ty apre le danze coi cinque minuti di “The bell“, che si muove su un dinamico binario acustico/elettrico e gioca sui cambi di tempo e influenze che riecheggiano Neil Young, John Lennon e Big Star. Si prosegue poi con “Void“, singolo dalle reminiscenze Zeppeliniane fritte nella psichedelia fuzzata, mentre in “I hear” si odono chiare ispirazioni Bowie-oriented e “Hi Dee Dee” aggiunge al mosaico anche una componente funk. “My best friend” (uno dei migliori pezzi del lotto) sa di Beatles tornati scazzati dall’India a sfogare le loro migliori energie psych sul “White album” dopo averne avuto abbastanza delle chiacchiere spirituali del Maharishi, “Reflections” scivola via senza sussulti, “Move” vede alla voce Denée in un bizzarro ibrido hard rock/proto-punk. In “Eggman” torna il sound dei quattro Scarafaggi di Liverpool riprocessato e manomesso da una coda finale noise rock, ed echi di “Fab Four” imbastarditi da trame fuzz-rock connotano pure la successiva, HarrisonianaMy room“. Se “Watcher” si districa lungo sentieri heavy rock, e “Repetition” suona come un riempitivo, la lunga “To you” si dipana in maniera interessante su trame elettro(nico)-acustiche e “Wait” sembra resuscitare i late Sixties dei Pink Floyd Barrettiani miscelati coi Pretty Things (periodo “S.F. Sorrow“). “Denée” è un tributo di Segall alla sua consorte: niente di sdolcinato, ma quasi sei minuti di esperimento che sconfina nel math rock/jazz, e la litania psych-folk di “What can we do” chiude il full length.

Non che debba essere per forza un male rallentare il passo e maturare, se la musica proposta continua a essere suggestiva e migliorata in qualità (e in questo senso si inserisce anche il suo passaggio in tour, in versione acustica, per alcune date in Italia a fine agosto) e pur ritenendo più che valido – anche se abbastanza prolisso – “Three Bells“, e restando immutati stima e affetto nei suoi confronti, continuiamo a preferire Ty Segall in una veste sonica più essenziale, grezza e senza troppi orpelli. Visti i tempi bui che corrono nel mondo, però, constatiamo che queste “tre campane” almeno non suonano a morto.

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