Questo libro del 1996, scritto dopo numerose conversazioni dell’autrice con la quasi ottantenne América Scarfò a Buenos Aires, racconta la storia d’amore che ebbe come sfondo l’Argentina degli anni venti, tra l’allora quindicenne América e il ventiquattrenne anarchico italiano Severino Di Giovanni.
Potrete leggere passaggi come questi:
- Apprendevo allora che Severino era stato un anarchico e un pericolo pubblico. Lo chiamavano “l’uomo vestito di nero”. (…) Nulla, nella sua persona esile e segreta, lasciava trasparire chi aveva tenuto in scacco la polizia per anni, alimentando la leggenda di un guerrigliero dotato di una destrezza allarmante, più di pantera che di uomo.
- (…) pensavo all’Argentina come a un paese ben strano, pieno di italiani che non erano più tali. Milioni di emigranti che per cent’anni erano sbarcati in cerca di fortuna, portando lavoro e politica, sovversione e timor di Dio. Repubblicani, anarchici, socialisti, erano arrivati con la benedizione del governo italiano che guardava con soddisfazione quelle mine vaganti allontanarsi dalla costa nazionale.
- Parlare di Severino non era facile perché i gesti estremi della sua vita lo sovrastavano arrivando ad annullarlo. Si diceva di lui che fosse stato un pazzo, ma anche un vendicatore audace, un rivoluzionario sincero, perfino un Robin Hood sudamericano, come lo chiamò un commissario di polizia che nella parte più nascosta del cuore nutriva un’infatuazione profonda.
- (…) frequentava gli italiani, anarchici come lui, ma anche socialisti, liberali e repubblicani che tentavano di organizzare il movimento antifascista in Argentina. Con loro i rapporti non erano facili. Severino, sempre pronto a scherzare e a fare sul serio, non risparmiava agli occasionali alleati le battute più taglienti perché li considerava non troppo diversi dal nemico che volevano combattere. Il suo problema, però, era che non riusciva a farsi prendere sul serio perché aveva l’aria del bravo ragazzo e, nonostante i suoi modi non troppo formali, era simpatico a tutti. Mentre lui li accusava d’essere borghesi battendo i pugni sul tavolo, loro gli sorridevano tranquilli senza riuscire a offendersi. Ai comizi andava sempre, ma solo per manifestare il suo dissenso, per sbeffeggiare l’antifascismo organizzato che, secondo lui, confondeva le masse, anzi, le addormentava con dosi massicce di propaganda dolciastra. Dolciastro era il suo aggettivo preferito, e lo usava per descrivere l’azione e le idee degli antifascisti non anarchici. Socialisti, comunisti, repubblicani, per lui erano tutti uguali, tutti ugualmente dolciastri.
- Alle riunioni antifasciste lo vedevano arrivare con il fazzoletto al collo, il berretto in testa e le scarpe di tela. Se la discussione s’accendeva, lui spiegava che, di positivo, c’era soltanto l’azione diretta, ma quelli che lo sentivano parlare non potevano fare a meno di ridere, perché lo consideravano incapace di tirare il collo a una gallina.
- Non aveva voluto né Dio né maestri. E allora si era fatto anarchico. Ma gli anarchici non gli piacevano e allora era diventato anarchico individualista. Col tempo, anche loro gli sarebbero piaciuti sempre meno.
- Anni prima, quando Severino abitava ancora in Abruzzo, erano insorti i peones della Patagonia che tosavano pecore per sedici ore al giorno. Ai loro padroni inglesi chiedevano un pacco di candele al mese, il sabato sera libero per fare il bucato, il permesso di non lavorare all’aperto sotto la bufera e di dormire su un pagliericcio invece che su una tavola. Scioperi e scaramucce, licenziamenti e un morto segnarono la prima fase della protesta contro gli inglesi che avevano risposto no a tutte le richieste. Da Buenos Aires si mosse l’esercito.
- Accuse violente gli arrivavano come siluri dai moderati, quelli che lui chiamava rivoluzionari da operetta, anarchici da salotto, antifascisti all’acqua di rose, devoti di sant’Ignazio di Loyola e in altri modi che inventava a seconda dell’ispirazione e dell’umore.
- All’indomani dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti scriveva: “Facciamoli soffrire! Non si può far intendere a un sordo se non si grida. È impossibile fugare un lupo senza adoperare mezzi violenti. Alla loro violenza opponiamo la nostra!”
- Il mio nome non importa, ne ho avuti anche troppi. Sono nato a Chieti, in Italia, nel 1901. Ma morirò qui, a Buenos Aires, tra poche ore. Verrò fucilato. Sono un anarchico. Ho combattuto e ho perso. Adesso pago con la vita e non cerco attenuanti.
- “Il mio io personale è ucciso per sempre” ha scritto Bakunin. Sottoscrivo la frase per me stesso. Non ho cercato affermazione sociale, né una vita agiata, neppure una vita tranquilla. Per me, ho scelto la lotta. Trascinare monotonamente le ore ammuffite della gente comune, dei rassegnati, degli accomodati, delle convenienze, non è vivere, è solamente vegetare, portare addosso una massa informe di carne e ossa. Alla vita si deve offrire la ribellione squisita del braccio e della mente. Ho affrontato la società con le sue stesse armi, senza chinare la testa, perciò mi considerano, e sono, un uomo pericoloso. Al di là di questo, nulla posso dire di me, il personaggio di cui parlano le cronache, il criminale descritto dalla polizia mi è sconosciuto.
- Rinascerò e sarò di nuovo io, di nuovo povero, di nuovo anarchico, di nuovo violento, di nuovo catturato, di nuovo ucciso in Argentina. Vivrò esistenze sempre identiche, morrò sempre a ventinove anni, sempre fucilato.
Cos’altro dire? América – sorella di Paulino e Alejandro, anarchici e compagni di lotta di Severino – condivide le sorti del proprio compagno sino alla fucilazione avvenuta il 1º febbraio 1931. Restata sola in un mondo nemico, continua a mantenere viva la memoria dei suoi cari e avuto notizia, negli anni settanta, che la polizia federale argentina è ancora in possesso delle lettere d’amore che Severino le aveva scritto, intraprende una lunga lotta con la stessa sino a ottenerne la restituzione.
Marco Sommariva