Si dice che ogni strada porta da qualche parte.
Si dice anche che bisogna perdersi per trovarsi veramente.
Ci sono strade, invece, nelle quali ti perdi e non ti ritrovi. Strade in cui tutti i tuoi assoggettamenti sono reali, in carne, si scontrano e creano traumi.
Ne passiamo di tempo per nascondere la vera natura di noi stessi, degli altri, delle cose attorno. Desideri imposti, voglie condizionate, caratteri stabiliti, azioni registrate, saperi catalogati.
In queste strade non scappi dalla tua natura fuorviata, tutto ti parla della tua schiavitù, della tua asettica simulata decisionalità. Ci sono mostri quotidiani che assumono una volta tanto l’aspetto che debbono avere, non ci si nasconde ora, si mette alla prova quel tuo cervello scontato, si è organizzata per te questa sciarada di controllori infernali. I controllori sono creature creati dalla tua stessa razza, vivono sotto forme molteplici e ti circondano, hanno fatto diventare anche te mostro. Un mostro di giudizi registrati, di comportamenti inscenati.
Eh sì, questo vento tiepido porta quell’amalgama di puzzo stordente di plastica bruciata e antisettico e naftalina vecchia e un po’ di feci umane seccate negli angoli di vecchi edifici abbandonati. Questo puzzo è la fragranza del declino dell’uomo e il richiamo della sua perdizione.
Eh sì, televisori incrinati formano cumuli immensi agli angoli delle strade, i monitor controluce sembrano formare richiami per misteriose e alate creature metalliche.
Il signor Ford cammina per le strade alzandosi il bavero dell’impermeabile, il suo viso biancastro si scontra con le stilettate del vento. Vento caldo, ma che porta malattie. Dotti scienziati hanno sciorinato ieri per televisione innumerevoli dati riguardanti la particelle di vetro e silicone nell’aria fuori città. Una brezza forte può inondarti il cervello di maligni microrganismi al silicio. Mangiamo già sostanze derivate da cadaveri di animali creati in laboratorio. Abbiamo zinco ora nelle vene. Beviamo plutonio. Siamo l’alba di una nuova generazione di uomini-scarafaggio. Abbiamo chiesto Progresso e il progresso è arrivato e inevitabilmente ha infilato il proprio fosforescente pene al tungsteno tra le nostre chiappe fragili. Per un attimo abbiamo anche goduto. Poi è diventata routine. Ora quel pene ci sembra ingombrante, dà fastidio, è diventato freddo. Ora gli orgasmi li abbiamo con venti monitor indirizzati con perizia geometrica e angolazioni meticolose uno contro l’altro per formare ellissi di immagini a catena che ci perforano il cranio. La nostra droga è la Dipendenza Assoluta, il nostro vanto di essere schiavi. Al giorno d’oggi non essere servo di qualcuno o di qualcosa è sinonimo di degenerazione. E che? Vorresti essere diverso dagli altri? Beviti la tua bibita gassata e fai il ruttino. Cosa vuoi essere? Un rivoluzionario? Un sobillatore psichico? Al cinema danno l’ottavo episodio di sua maestà la regina in calzamaglia, fatti un drink, parla senza dire, vestiti come si deve, compra un buon materasso.
Il signor Ford è uscito stasera perché è una sera certamente come le altre ma lui è un po’ nervoso, si mordicchia l’interno delle guance, tira su col naso, ha occhi umidi, non ha fissato il Tg delle 20 e la camomilla è finita.
Il centro città è un agglomerato pomposo di vetrine che mandano luci verdi azzurre rosate, ti dà pace soltanto scorgere da lontano quei vetri illuminati che sembrano presagire la mostra di qualcosa di ineffabile. Ci sono strutture titaniche di vetrine che si accavallano le une sulle altre, vere e proprie montagne luminose che salgono dal cemento come splendidi mostri dal potere ipnotico. Verticali fortezze di appagante e stordente luminescenza. Sono magnetici colossi di vetro dagli scheletri di cemento e ferro che s’alzano come costruzioni disordinate di lego ammalianti, pencolanti torri dei desiderio oggettistico, futuristiche forme erette, così barcollanti e insieme così fortemente salde, granitiche, sono strutture del rapimento, non puoi che guardare, pregustare e assaporare le mille confezioni di calze, i giubbotti col pelo, le macchine da cucire, le auto lucidate, i frullatori insaziabili, le scope elettriche, il dentifricio verde.
Non puoi non essere ammaliato dalla splendida ferrosa consistenza dei nuovi idoli che si ergono come portentose torri di babele indistruttibili.
Il signor Ford guarda ancora per un momento quei mostruosi agglomerati di cose che paiono fissarlo da dietro quelle vetrine inarrivabili, ma che gli fanno l’occhiolino, che lo fissano in maniera stordente e asfissiante.
Questa sera il signor Ford è uscito sapendo che non può farlo. Il governo te lo vieta. Non è un coprifuoco vero e proprio, non c’è nessuna legge che emenda l’obbligo di stare a casa. Ma è anche vero che nessuno ti obbliga a recarti ogni mercoledì sera al cinema di Stato per fare il pieno dei filmati prodotti dal Ministero della Salute che ti ragguagliano sulle nuove malattie che prosperano al di fuori della città. Ma tutti ci vanno. È consigliato caldamente dal Tg delle 8. Quella voce rimbombante ti assicura che è per il tuo bene recarti alle proiezioni delle cinque, e la massa consenziente non pensa che forse ha qualcosa di meglio da fare, si reca in centro, si immette nella fila ed entra nella sala. Malattie ossee e nuovi tumori riscontrati nell’apparato digerente. Ecco cosa ci offre la serata. Microorganismi generati da virus esotici nell’acqua. Bere l’acqua Fonte, a tutte le sere, dice il Tg, bevete acqua Fonte, non rischiate.
Lo Stato non dice neanche che bisogna restare a lavorare nelle sbuffanti fabbriche di plexiglas o silicone oltre l’orario di lavoro, ma tutti ci rimangono, è per il bene della comunità, dicono, il progresso maligno lo si sconfigge con altro progresso, progresso su progresso, fino al progresso ultimo. Quello che ci porterà al paradiso artificiale, il nirvana delle nostre coscienze fluttuanti. O all’inferno, totale, dell’asservimento, ma questo non lo dicono.
Ford lo sa, lo ha capito da un pezzo, si intuisce su ogni cosa che vede, annusa, respira, non ci crede che ogni essere del pianeta non ci sia ancora arrivato come ci è arrivato lui.
Sente la sirena. È un richiamo senza senso che proviene da una delle torri di controllo. A random, ogni tot, questo rumore altalenante e assordante parte senza motivo. Non è un allarme ma ti tiene in allarme. È lo strato di ansia progettato e continuato. Ti fa tenere sempre sull’attenti. Ti fa capire che lo Stato è lì, sempre presente, il suo fiato sul tuo collo. È una velata minaccia. Stai attento, ti guardo!
Non ci si può abituare ad un suono del genere, come non ci si può abituare a un grido di spavento urlato al tuo orecchio. Ti giri sempre di scatto, il respiro si fa corto, il cuore batte veloce.
Piovono particelle di stagno e gocce di cherosene, quelle che provengono dallo stabilimento primario al limitare della città e che scarica tonnellate di squamose immondizie in condutture che si attorcigliano sotto i palazzi, lungo tutto il perimetro della ragione. Ma l’uomo si è abituato anche a questo. L’uomo si abitua a tutto.
Nuove forme depravate di animali ibridi scaturiscono dalle fogne con musi da giaguari e bava azzurra che scintilla nella sera. Topi grandi come un pugno si gonfiano come palloni e esplodono nella notte. POF! POF! POF! La mattina si scorgono sempre queste macchie rossastre con intestini penzolanti sui muri delle vie. Ma l’uomo si abitua a tutto. Se ne fa una ragione. Resta nelle regole. Senza regole muore. E forse, più le regole sono malsane, torbide, oppressive, più si adegua. Gli rende la vita facile seguire binari imposti e più sono dritti più la sua strada è scorrevole.
Ma se capisci l’intoppo, tutto diviene insopportabile. Se svesti il manichino vedi il corpo di plastica, senza genitali e liscio come l’osso. Un osceno oggetto che imita la vita.
Ford ha svelato l’arcano, una coscienza forse fra tante che ha scoperto la trappola, i topi siamo noi, i topi hanno sempre fame, i topi muoiono.
Ancora la sirena. Il richiamo dell’ordine che è anche l’insinuazione dell’orrore. La paura comanda, sempre. Chi governa si specializza nello studio delle emozioni primarie. L’essere umano non è una creatura così bella. Vive di invidie, di sete di potere, di sete di possesso, di sopraffazione sull’altro. L’amore lo hanno inventato i poeti, per farci star meglio. Per farci dormire. Per farci riuscire a sopportare film melensi con coppie che scopano e fuori nevica.
Le pattuglie di sbirri di Stato sono sempre in giro, Ford lo sa, e sa anche che non è reato, almeno non è un reato palese, girare a quell’ora in città, ma sa che gliela faranno pagare se lo beccano, hanno metodi che non sono carcere, botte o spari per farti tornare nella retta via.
Hanno metodi studiati in secoli di dominio sull’altro, di assoggettamento, l’epoca delle dittature militari è finita, i soldati non servono, le armi sono arcaici suppellettili per poliziotti di frontiera da romanzo d’appendice.
Il cervello è un’orma su cui possono calcare continuamente e ridisegnare all’infinito la sua forma. Il cervello lo possono distruggere e riprogrammare. Quanti istinti reinventati possediamo ora che solo cinquanta anni fa erano improponibili. L’evoluzione dell’asservimento è sempre proporzionalmente in espansione con la crescita della cosiddetta società civile.
Ecco una macchina, Ford la sente, che scivola nell’asfalto come una mangusta pronta all’attacco.
Sono loro, è ovvio, solo loro girano per le vie a quest’ora.
È una macchina metallizzata con vetri scuri e una grossa proboscide di lampeggianti azzurri che si muove sul cofano come una coda di scorpione. Queste proboscidi captano i soggetti indesiderati, i piccoli passeggiatori fuori dalle regole non scritte, come Ford. Non è naturale la curiosità in questo mondo.
Non c’è ragione di camminare per la città, domani si lavora.
C’è la tv, ci sono i telegiornali.
Ci sono i contaminati e radioattivi pranzi passati dalle succursali dell’approvvigionamento.
C’è il mercoledì al cinema.
Cosa si vuole di più?
La pattuglia si ferma di fianco a Ford. La lunga proboscide di metallo si protende dall’autovettura respirandogli rauca sul cappotto, annusando la sua provocazione, carpendo ogni sua cellula di ribellione.
Ford si ferma, non può fare altrimenti, è uno dei tanti meccanismi istintivi con cui il suo corpo è stato programmato.
Polizia: alt.
Proboscide: non respirare.
Dire la verità: quale verità?
Ford si gratta il naso, aspetta, è fottuto, lo sa, gli era sempre andata bene fino ad ora, oggi è la sua fine.
Piccole farfalle dal muso di rospo e i colori fluorescenti ronzano e sbattono contro il lampione sopra la sua testa.
Una portiera dell’auto si apre, si scorge prima uno scarpone nero con fibbia bronzea, poi la gamba vestita dall’usuale stoffa nera bordata da stringhe catarifrangenti.
Il poliziotto è un alto uomo senza occhi e la testa calva. Gli occhi non gli servono, innumerevoli sensori percettivi cosparsi in tutto il corpo fanno sì che percepisca ogni cosa attorno. Al posto degli occhi una specie di ragnatela gelatinosa gli copre il viso da tempia a tempia. Non si può leggere nulla dal suo viso. Non ha espressione, la bocca è stretta e ferma, gli zigomi alti e scolpiti.
Ford piega la testa. Vorrebbe mostrare il suo pentimento, abbandonarsi a suppliche, dichiarare la sua colpevolezza. Ma è inutile, lo sa.
Il poliziotto fa un passo e dice:
“Non è uso camminare per la città a quest’ora. Per il suo bene e per quello della intera cittadina la prego di accomodarsi in auto”.
Si scosta un attimo dalla portiera aperta, lasciando un piccolo spazio per far passare Ford.
All’interno dell’abitacolo si sente un fruscio fastidioso come di dita che stropicciano della carta ruvida.
Poi il rumore gorgogliante di sostanze vischiose che si scontrano.
Un odore pungente come di ammoniaca fuoriesce dagli interni, colpiscono le narici di Ford che si piega, scuote la testa.
Si sente risucchiare all’interno di quell’auto, ode distintamente quello strofinio, il gorgoglio, piccoli tonfi sordi. Un suono gracidante di decine di organismi che paiono ridere.
Ford si muove meccanicamente, quel piccolo spazio di controllo che è quell’automobile di pattuglia forse lo immergerà nuovamente in quel grande spazio di controllo che è la sua casa, la sua città, il suo mondo.
E in un attimo gli sfugge un sospiro.
È un sospiro di rassegnato sollievo.
Perché dannarsi?
Credere alla libertà è un po’ come credere a Dio, a Gesù. E’ come credere ai marziani, è come credere a John Wayne che cavalca solitario nelle praterie del West.
Noi siamo quel che il nostro habitat ci concede.
Pensare di possedere un libero arbitrio è come fidarsi dell’Uomo, della propria evoluzione, delle fabbriche di plastica, del cibo in scatola, e confidare nello smog, nell’assassinio, nella morte violenta.
Il signor Ford entra nell’auto.
Forse il controllo è la soluzione migliore.