“Do you want magic mashrooms?”
Le fate esistono, sembrano olandesi, ma sono croate e dal 19 al 23 luglio hanno abitato i Boschi del Monte Peglia.
Mentre un brano a 140 bpm si faceva strada tra i rami di pini neri alle dieci del mattino, io preparavo la colazione alla mia piccola tribù di adulti sperduti. Sorpresa ho alzato la testa: due piedi nudi e bianchi si avvicinavano al telo che avevo premurosamente steso sul terreno dissestato, pieno di rami spezzati, pietre e aghi di pino. La figura di una ragazza esile, bionda, dagli occhi azzurri, si stagliava in controluce per poi abbassarsi sulle ginocchia e guardarmi dritto in faccia.
“Do you want magic mashrooms?” ripeteva eterea nel suo largo vestito in colori pastello. Guendi, alla mia destra, sgranati gli occhi marroni in un sorriso, rise: “Wao, servizio a domicilio.”
Siamo al secondo giorno del Wao Festival 2017, maratona musicale psy-trance e techno alla sua terza edizione.
Se avete letto il precedente articolo, vi starete probabilmente chiedendo come ha fatto una pigra incallita che ascolta Pino Daniele, a resistere a cinque giorni di psy-trance ventiquattro ore su ventiquattro. O, se non come, vi starete probabilmente chiedendo il perché.
La risposta trova le sue radici in quello che io chiamo “incantesimo della cassa”, ovvero lo straordinario fenomeno per cui, anche se sei stanco, se ti scoppiano i timpani, anche se la musica non ti piace, se sei sotto cassa in qualche modo ci rimani, sorridi, chiudi gli occhi e balli, a prescindere dalle droghe. L’incantesimo su di me funziona poco, forse perché sono cinica, forse perché pigra o forse perchè sotto cassa c’è sempre poco spazio e la claustrofobia, si sa, con la folla pulsante e sudata che ti strattona, non va proprio a braccetto. Motivo per cui, spinta dalla curiosità, in questo caso più antropologica che musicale, sotto cassa mi ci sono spinta anch’io, ma per guardare.
Il mainstage del Wao Festival è una cattedrale psichedelica di bamboo, creata dal collettivo Canya Viva. Si staglia sull’unica parte pianeggiante della location, accerchiata dalle colline del camping, dell’alternative stage e dell’healing area. Dal dancefloor la vista è strepitosa: una valle di alberi e collinette più basse, un tramonto incredibile. L’aria è purissima, leggera, e, portando via il nuvolone di polvere alzato dai piedi battenti sul terreno, rigorosamente nudi, di tanto in tanto viene provvidenzialmente a rinfrescare i sensi della massa scalpitante sotto la cattedrale. A lato, seduta per terra, ci sono io. Seduta perché pigra, a lato (a lungo) perché sorpresa.
La sorpresa nasce dal fatto che a me la psy-trance non piace, eppure, in quel contesto, con quei colori, quelle luci e quelle persone, persino stando seduta e a margine, sono stata trascinata in una sorta di flusso, un sentire universale partito dal mainstage e finito chissà dove insieme alla polvere alzata dai piedi. So che queste affermazioni sembrano fuffa e puzzano di fricchettonata, ma è proprio per questa fuffa e fricchettonaggine che prima la goa, e poi la psy-trance, si sono diffuse in tutto il mondo, partendo dall’India negli anni 70 per arrivare a oggi, diversificate e diramatesi sotto l’influsso di altri generi. Il flusso di cui parlo, il sentimento universale, assume mood differenti in base alla tipologia di psy ascoltata, e sempre, che si tratti di chill out, full on, prog, dark e via dicendo, si propaga in chiunque l’ascolti, portando i singoli individui presenti ad una condizione di “eguaglianza emotiva” da me mai vista/percepita con la techno o la d’n’b, che pure gli sono cugine.
I verbi “guardare” e “vedere”, precedentemente usati, mi danno modo di affrontare una questione saliente sia per la comprensione di questo pezzo sul Wao Festival, che per questa rubrica in generale: io di musica non ne capisco niente. Tutto ciò che so sull’argomento, e che quindi ha influito sui miei gusti e la mia curiosità, lo devo a MTV, TRL, Radio Capital, Virgin Radio, You Tube, Spotify, gli amici e ovviamente Wikipedia. Al di là del gusto personale, la cosa che più mi piace dell’ascoltare musica è che ogni genere rispecchia una cultura e dietro ogni cultura c’è sempre una storia di individui che si sono fatti massa, gruppo, famiglia.
Quando vado ad un concerto, specialmente se non sono particolarmente presa dall’ascolto, mi diverto ad andare in giro ad osservare il pubblico, indovinare le storie delle persone, capire perché stanno cantando, ballando, pogando e immaginare cosa di loro stessi ritrovano ascoltando quel determinato suono o parola. Stesso discorso vale per la musica da dance floor. Così, se con la techno e la d’n’b notavo che i singoli individui in pista non ballano mai compiendo gli stessi gesti o seguendo lo stesso ritmo, ma anzi sembra che ognuno segua una propria linea melodica e sfrutti la musica come tramite di evasione, “destrutturazione” o “annichilimento” del reale (e quindi dell’altro), con la psy-trance succede esattamente l’opposto: i piedi, battuti per terra con forza, seguono tutti lo stesso ritmo e anche chi non li batte, ma resta fermo, per l’appunto in trance, perso nel suo trip, si muove comunque seguendo lo stesso tempo degli altri. La psy-trance ha il potere di riunire chi l’ascolta in una sorta di tribù e chiamo a testimonianza di ciò le grida indianine o gli ululati che sui picchi più energici di qualche pezzo full on si sono levati dal mainstage, persino alle cinque del mattino, attraversando le colline circostanti.
La psy-trance non mi piace, è vero, ma mi piace la carica che dà, specialmente quella della full on, che sembra distribuire a tutti l’energia necessaria a cominciare una guerra. Energia che parte dalla musica, passa per il cuore e infine viene schiacciata a terra. E’ un rituale di liberazione, una catarsi.
Ma torniamo al festival: il Wao è prima di tutto un gathering, un raduno di persone provenienti da tutto il mondo nel parco Settefrati, sul Monte Peglia (San Venanzo/Orvieto). Il concept alla base è l’ecosostenibilità e viene affrontato con seminari, workshop, allestimenti dei servizi (compost toilets, panchine vista valle, tempio dell’healing area), struttura degli stages e persino nelle attività della zona Healing, dove tra yoga, aikido, meditazione e il saluto al sole, anche il corpo viene rieducato all’armonia con la natura. Cinque giorni, 110 euro. Eccettuate le disavventure con l’acqua, la disorganizzazione nella gestione della navetta, i pochi punti rifiuti, le condizioni terrificanti dei bagni chimici e alcuni spacciatori inquietanti apparsi nel buio intorno al mainstage, non ho avuto particolari motivi per incazzarmi e così mi sono potuta abbandonare al festival.
Un festival di fricchettoni insomma, e, incredibilmente, anche per famiglie. Per i bambini, forse i più felici di tutto il festival, la produzione ha anche allestito una kids area, con spazio e tavoli all’ombra per ripararsi dal sole. Invidiatissimi.
La presenza di bambini può far intuire lo spirito del festival, forse meglio riassumibile nell’immagine del mio vicino di tenda che, oltre ad aver fondato la “zona scorreggia libera”, ha anche indossato per cinque giorni, diventando il mio guru, la stessa maglia logora e grigia con la scritta: “libertà di scelta”.
Libertà dunque, di ogni tipo, ma ad una sola condizione: la libertà individuale finisce dove comincia quella degli altri. Un mantra che di fatto ha funzionato e che è riuscito a convincere anche la classe politica del comune di San Venanzo. Il sindaco, consapevole del target cui il genere musicale si rivolge, ma ben più consapevole dei benefici che un comune di 2.000 abitanti isolato nella natura avrebbe potuto trarne, ha concesso lo spazio al festival per i prossimi 12 anni, dichiarando che grazie al Wao, San Venanzo è ormai una meta turistica, anche per gli stranieri.[1]
Conclusioni: il Wao Festival può certamente ambire a diventare uno dei fiori all’occhiello tra i Festival italiani, alcune cose vanno riviste e altre credo arriveranno con l’esperienza. E’ un festival che merita l’attenzione non solo di chi cerca musica e droghe, ma di chiunque si sia chiesto se un altro modo di vivere è possibile e se si troverebbe bene a viverlo. Wao Festival è anche informazione, rieducazione, purificazione (se non altro per l’aria), libertà e turismo (si può sempre fare un giro per i paesini e perdere il fiato davanti ad alcuni scorci di Orvieto, dove tra l’altro ci sarebbe da andare a trovare Il Mago Di Oz).
La psy-trance non è per tutti, così come non è per tutti il pop, il rap, il metal, il rock, la parmigiana di melanzane a cena, l’alcol, le droghe, non dormire per 72 ore o passarne più di 100 senza uscire di casa, ma il bello del Wao è ciò che ti insegna, anche se non ti piace la musica e sei un’irreducibile individualista: we are one, e non lo capisci finchè non lo provi.
Grazie ai volontari del festival che si sono prodigati a tenere la location pulita e vivibile nonostante il concetto del “tutto e tutti” non sia arrivato proprio a tutti (e con tutti mi rivolgo in primis al ragazzo in t-shirt logora e grigia con la scritta “libertà di scelta”: ha scelto di abbandonare i suoi rifiuti al posto della tenda).
Colonna sonora: Excitement generator di Tristan, album Way of Life, 2014
Trailer della prossima puntata:
Non volevo tornare al Sud, ma
Non capisco se il giornalismo musicale italiano è più venduto dell’Unità o sono io che sono un’irreducibile rompicoglioni, ma sono stata al Viva! Valle d’Itria International Music Festival e la mia idea sul festival è un po’ diversa da quella delle recensioni uscite.
Ho partecipato solo a una delle sei serate organizzate da Club To Club in Puglia, quella del 15 agosto con Lorenzo Senni e Nicolas Jaar. I report scritti trattano tutti dell’intero festival, toccando il daybyday solo di sfuggita, così quello che a me è sembrato un Ferragosto inceppato, è apparso come un seratone, vinto in partenza grazie al bel cileno.
[1] http://www.dinamopress.it/news/una-cattedrale-sul-monte-peglia#!20246381_119304595363342_3358973407386071005_n