WERNER HERZOG AGUIRRE, FURORE DI DIO [1972]
Italia, millenovecentosettantadue. Siamo nel pieno degli anni dello stragismo e della contestazione sociale. L’Italia è un fermento incontrollabile di idee, spesso confuse, in alcuni casi [tutt’altro che sporadici] addirittura sbagliate, gridate a squarciagola e difese come fosse in gioco la vita stessa dei ragazzi che si fronteggiano nelle strade. Siamo in lotta contro “il sistema” statale che soffoca le idee di rinnovamento che infiammano i cuori dei giovani.
Il percorso di autodistruzione ancora non è giunto a termine e sono ancora lontani i giorni del distacco e dell’analisi di ciò che sta andando in scena. Le carceri sature di “prigionieri politici” scoppiano, non si contano le rivolte dietro le sbarre dove trovano posto, insieme ai delinquenti comuni, anche un vasto numero di extraparlamentari di ogni tipo di schieramento.
Fuori, nei palazzi che contano Giulio Andreotti presiede il suo primo governo in qualità di Presidente del Consiglio, nelle aule di giustizia intanto si celebra il processo per la strage di piazza Fontana, muore in seguito al fallito attentato da lui stesso ordito Giangiacomo Feltrinelli.
Dopo pochi mesi medesima sorte toccherà anche al commissario Luigi Calabresi, mentre in estate vengono casualmente ritrovati da un sub nel mare della Calabria due statue bronzee che saranno rinominate i Bronzi di Riace, e alle Olimpiadi di Monaco di Baviera va in scena il massacro degli atleti israeliani ad opera di Settembre Nero. Nel cinema per l’Italia è un anno memorabile.
A Berlino l’Orso d’Oro è vinto da Pier Paolo Pasolini con “I racconti di Canterbury”, a Cannes vicono la Palma d’Oro ex aequo due film italiani: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri e “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, infine a Los Angeles Vittorio De Sica vince l’Oscar con “Il giardino dei Fintzi Contini”. Ma è in Germania che il cinema [quello con la C maiuscola] lascia il proprio segno indelebile. Esce infatti a fine anno nelle sale il primo film vero e proprio del regista bavarese Werner Herzog. AGUIRRE, DER ZORN GOTTES il titolo originale, prontamente [e per una volta correttamente] tradotto in AGUIRRE, FURORE DI DIO. Dopo una serie di documentari dedicati a tematiche soprattutto sociali, Herzog decide di fare il grande passo e realizza con un budget piuttosto ridotto per l’epoca [di cui almeno un terzo destinato a Klaus Kinski, l’interprete principale] un piccolo capolavoro che non tarderà a diventare un cult movie assoluto per tutte le generazioni a seguire.
L’idea viene a Herzog in modo del tutto casuale, legge infatti distrattamente un trafiletto riguardante la vicenda di tale Lope de Aguirre, condottiero spagnolo che si recò in Sud America sulla scia dei suoi predecessori Cortez e Pizarro in cerca del fantomatico El Dorado alle sorgenti del Rio delle Amazzoni [luogo inventato dagli Incas per portare a morte tramite autodistruzione i conquistadores oppressori] finendo per andare disperso nella giungla insieme ai suoi fedelissimi.
È il tema legato al grande fallimento [in questo caso legato all’impresa dei conquistadores] che spinge Herzog a partire per il Sud America senza uno stralcio di sceneggiatura, eccezion fatta per il viaggio sul fiume che concluderà la pellicola, unico storyboard preparato per l’occasione. Le riprese durano all’incirca due mesi e sono caratterizzate dal “realismo herzoghiano” che impone di non ricostruire alcun set ma di svolgere tutto sul campo, in totale regime di improvvisazione. Stesso discorso per tutte le comparse, che vennero infatti reclutate al momento dell’arrivo in Perù senza accordi preventivi. Per il ruolo di Aguirre la prima scelta di Herzog cadde sul presidente algerino Boumedienne, che per ovvie ragioni declinò l’invito. Fu allora che Herzog decise di interpellare Klaus Kinski, senza immaginare che quel momento avrebbe segnato il loro futuro insieme.
Tutti i film principali [e meglio riusciti] del cineasta bavarese infatti sono da iscrivere al periodo d’oro del loro rapporto, nato in modo del tutto casuale, visto che i due condividevano due stanza del medesimo appartamento, pur senza aver legato in modo particolare, almeno fino a quel momento. L’intuizione di Herzog fu quindi fondamentale per entrambi, ma soprattutto per il film. Kinski, nonostante le follie durante le riprese, diede spessore al personaggio, andando a caratterizzarlo in modo decisivoa livello di presenza scenica con la caratteristica claudicatio, lo sguardo allucinato e al tempo stesso esaltato, estatico e superomista. Ovviamente da qualche parte la presenza ingombrante di Kinski doveva farsi sentire.
E infatti i problemi non tardarono ad arrivare, con ritaradi e disguidi in sede di realizzazione. Ma non solo. Sono passate alla storia le litigate tra i due, ma anche tra Kinski [che pretendeva un trattamento di favore, quasi da star, sia in termini economici che di sistemazione alberghiera] e il resto della troupe ma anche nei confronti degli indios. Scena che si ripeterà anche sul set di Fitzcarrado dove gli indios arriveranno addirittura a offrirsi ad Herzog come assassini materiali di Kinski per conto suo. Alla fine, nonostante Kinski, il film andò in porto e tutto venne accantonato, per poi riesplodere puntuale alla pellicola seguente. Il percorso di distacco dalla realtà per l’attore era difatti solo all’inizio. Celebre la litigata in cui apostrofa Herzog come “regista di nani” [evidente riferimento a “Anche i nani hanno cominciato da piccoli” di due anni prima] con quest’ultimo che pistola alla mano minaccia di ucciderlo con otto pallottole riservando l’ultima per se stesso.
Con un contorno del genere AGUIRRE, DER ZORN GOTTES non poteva non diventare un capolavoro. Sin dalle prime batture. Il film ha infatti nella sua scena iniziale uno dei momenti più alti della filmografia non solo di Herzog ma del cinema tutto. Indimenticabile la sequenza che segue i titoli di testa con la spedizione carica di bagagli che avanza scendendo dalla montagna, attraverso impervie mulattiere in mezzo a mille difficoltà, accompagnata dalle note sognanti di Popol Vuh.
Il tutto prima preso in campo lunghissimo e poi pian piano ravvicinato fino al dettaglio grossolano. Spunta infatti anche la mano di Herzog stesso, che si muove a fatica negli spazi disagevoli, con la cinepresa in spalla che aiuta il passaggio dei conquistadores in un momento di particolare difficoltà prima che cadano a terra. È solo una frazione di secondo, un movimento quasi impercettibile ma che racconta tutto il mondo di Herzog attraverso un gesto. Anzichè girare nuovamente la scena la lascia esattamente com’è.
Fregandosene della propria mano che irrompe nello schermo. Che dire ancora di Kinski/Aguirre senza rovinare la visione a coloro che ancora non hanno visto il film? Aguirre, inizialmente defilato, diventa il personaggio cardine della pellicola nel momento in cui si ribella al volere di Pedro de Ursua, il condottiero scelto da Pizarro per la missione esplorativa. Gli eventi nefasti che stanno spingendo la truppa verso il ritiro sono il pretesto da cogliere al volo per prendere il comando della situazione e come dice Herzog “diventare il primo conquistatore ribellatosi al colonialismo”.
Ma, aggiungiamo noi, anche il simbolo del fallimento improcrastinabile. Ben consapevole che la missione non potrà che terminare in disfatta Aguirre decide comunque di non abbandonarla. I veri nemici della spedizione catastrofica alla fine non saranno tanto gli indios che in tutti i modi cercheranno di ostacolarne l’avanzamento ma la natura stessa [il fiume, ma anche la vegetazione] che si oppone alla profanazione altrui guidata da Aguirre. Il contorno che diventa personaggio. E con il proprio infinito propagarsi risucchia nel ventre della follia la combriccola esplorativa. Sarà proprio il finale del film con l’inversione dei ruoli a sancire un altro momento indimenticabile.
Mentre la zattera di Aguirre, con l’equipaggio ormai più che decimato, va alla deriva si ha il ribaltamento dell’azione. La natura è ora a dominare i giochi, con i vortici del fiume e le correnti, con Aguirre e il cadavere della figlia [con cui avrebbe voluto incestuosamente creare la razza pura] immobili attendono il proprio destino, mentre le scimmie assaltano la zattera e ne prendono possesso.
Si realizza l’inevitabile fallimento di un’ascesa indirizzata ad un obiettivo irragiungibile e fuori dai propri limiti. Un film epocale, sotto tutti i punti di vista.
Che aspettate a farlo vostro?