di Antonio Matteo Ghione
Nella solitudine della notte Kyle decise di recarsi prima verso il centro del paese. Aveva l’impressione che fosse lì la chiave del mistero. Così arrivato alla piazza del campanile notò, per la prima volta, una fessura alla base della torre, dalla quale usciva una luce. Si avvicinò con timore e ansia di scoprire cosa si nascondesse all’interno.
Entrò, guardandosi bene intorno per essere certo di non essere visto, e, davanti a sè, apparì una lunghissima scala che, vorticosamente, sembrava trivellare il pianeta sino al suo centro. Scese gli scalini uno ad uno osservando le pareti illuminate da grandi candele bianche, sulle quali erano incisi scritte in latino e disegni di pianeti e costellazioni.
Più scendeva verso il “centro della terra” più forte era il suono proveniente dal fondo, sino a quando si manifestò alla sua vista un’enorme sala dove erano riuniti gli anziani. Non erano però i soliti anziani, o meglio non solo i soliti. Gli anziani riuniti avevano toghe di colore diverso dalle solite, toghe nere alle quali era abituato. Terminato il canto uno di loro salì su un trono ornato d’oro e d’argento e prese a parlare:
-Fratelli. Fratelli di Bakersville, Fratelli di Cambersville e Fratelli di Ketersville. Conoscete tutti il motivo per il quale siamo riuniti qui oggi. Sono trascorsi cento anni da quando i nostri avi si sono riuniti per l’ultima volta e ora… ora Zábeth è tornata e noi dobbiamo onorare il nostro accordo-.
Terminata questa frase Kyle iniziò a ricostruire nella mente il suo passato “Allora le storie su Zábeth erano tutte vere”. Scosso da tale rivelazione iniziò a correre verso l’uscita.
-Dove stai andando Kyle?- urlò una voce femminile dietro le sue spalle
-Chi sei?-
-Non riconosci neanche la voce di tua madre, Kyle?-
-Ma… mamma cosa ci fai qui?-
-Io sono la Maga, io so tutto, io vedo tutto-
-Dunque sapevi che sarei corso qui prima di andare verso villa Zábeth?-
-Certo! Ma non sono qui a fermarti, sono qui solo per vedere ancora una volta i tuoi occhi-
La Maga guardò intensamente in quegli occhi ormai adulti e lo spinse via.
Il ragazzo uscì e la donna si immerse di nuovo nella luce soffusa delle candele.
Si recò di corsa verso le case dei suoi amici ma non trovò nessuno. Allora la collera si impadronì di lui e, senza pensare, corse verso il bosco.
Corse tra gli alberi, lungo il sentiero ma la vecchiaia che aveva colpito gli altri non lo stava sfiorando nè il senso di perdizione lo stava logorando.
Era lucido e cosciente. Correva senza sosta schivando, senza saperlo, gli scheletri di altri ragazzi trascinati sino a lì.
Arrivato di fronte al grande cancello in acciaio si accinse a spingerlo ma non ne ebbe il tempo, esso si aprì e una voce di donna gli sussurrò -Non ti affaticare, è aperto-.
Gli occhi iniziarono a bruciare del fuoco della vendetta, la notte gli copriva le spalle con il suo manto nero, le stelle lo fissavano quasi minacciose, la luna latitava e gli alberi del lungo viale, ricoperti di fiori, sembravano mani tese a rapirlo. Non si curò di tutto ciò e corse verso la villa. La stanchezza era un vago ricordo, non aveva il fiatone di chi corre all’impazzata, nè il sudore lo bagnava. Era sprofondato in una sfera di pace dove i suoni erano solo canti di ninfe e sirene e i profumi di balsamo e fiori di loto.