Bakersville era una piccola cittadina di pochi abitanti, per lo più pastori e contadini. Le case non superavano i quattro metri di altezza ad eccezione di alcune che potevano ospitare più di sei persone. Tutte pressoché identiche, stereotipate sino all’inverosimile, le porte d’ingresso avevano due piccole finestre sopra di esse che lasciavano entrare luce ai piani superiori e i tetti erano spioventi per far scivolare via la neve che vi si accumulava.
Le strade erano ricoperte di ciottoli e risultava complicato, quasi doloroso camminarvi; nei giorni di pioggia restarvi in equilibrio era arduo a causa della melma che vi si formava rendendole scivolose, ma gli abitanti erano tanto legati alle tradizioni da non voler cambiare assolutamente nulla di quel paese considerato incantato.
Rivolgendo lo sguardo al campanile, verso oriente, si poteva scorgere una grande collina con al centro la vecchia villa di Madame Zabéth.
Una singolare dimora alla quale nessun abitante ebbe mai l’ardire di avvicinarsi. Con grandi mura bianche e perfette nonostante i suoi trecento anni, il tetto assolutamente intatto colorato di un rosso più vivo del fuoco che arde nella notte più buia del buio più scuro e le finestre, bianche, non lasciavano intravedere nulla dell’interno. Sembrava una zona completamente disabitata eppure non un fiore smetteva mai di germogliare a primavera, non un ramo cadeva mai dai mille alberi che scortavano il lungo viale dal cancello alla porta di entrata, finendo per accerchiarla completamente, e non una siepe o un’aiuola erano mai in disordine.
A Bakersville la consuetudine delle giornate era quasi asfissiante e nulla cambiava, ognuna era uguale alla precedente e a quella successiva. Tutti sapevano cosa sarebbe successo il giorno seguente e si poteva andare anche oltre il mese per azzardare una previsione.
Sino al momento in cui un giovane, Frederick, non sentì crescere dentro la voglia irresistibile di addentrarsi nel piccolo bosco che cingeva il paese per terminare ai piedi della collina che portava al cancello della villa.
Frederick non resistette e si immerse completamente, non solo con il corpo ma anche con la mente e lo spirito, in quel labirinto di alberi. Non lasciò messaggi, né avvisò gli amici su dove si stesse recando né perché.
Era come caduto in un’insolita trance che gli portava via la volontà, trascinandolo senza un motivo apparente verso quel tetro e oscuro bosco.
Gli alberi lo avvolgevano e coprivano la fioca luce del sole del crepuscolo invernale.
Totalmente privo di forza, in assoluta assenza di capacità intellettiva, Frederick camminava senza sapere nemmeno più chi fosse o dove si stesse recando. Un vegetale tra i vegetali, un’ameba senza cervello, un buco nero al centro di una galassia.
Camminava e non provava sensazioni attirato da una forza oscura e invisibile. I sensi erano azzerati. I suoi occhi erano bianchi, le pupille rivolte verso l’interno. La bellezza della gioventù svaniva ad ogni passo. Il viso si ricopriva di rughe, la pelle delle mani pareva sgretolarsi mentre si avvicinava all’uscita della folta boscaglia.
Il sole era ormai completamente svanito e il cielo era scuro come pece.
Arrivato al confine segnato dalle conifere la vista tornò, seppure ancora opaca. Davanti a quel che rimaneva del giovane apparì il grande cancello della tenuta ospitante la villa di madame Zabéth. Imponente come il portale di un castello medievale, forte di acciaio e luminoso come le stelle nel cielo più terso dell’estate.
Esso si aprì e la forza misteriosa attirò Frederick ancora più prepotentemente all’interno.
… continua