Un disco così pare facile ed invece è difficile e lo è, anzitutto, perché in fin dei conti non è databile. Certamente è uscito nel 2023, come da note sul Bandcamp di Goodbye Boozy (che qui suona, espone e licenzia), ma che riferimenti prendere, su cosa basarsi per parlarvene?
L’impressione è che gli Zoids più continuino ad andare avanti e più lascino dietro ed intorno a sé tracce confuse e appigli incerti per quello che riguarda la loro forma sonora. Verrebbe da dire che sono un gruppo Garage Punk ma, ascoltandoli e facendo fede a questo genere, viene da interrogarsi su cosa sia il Garage Punk o, per lo meno, cosa significhi per gli Zoids il termine in sé.
La prima cosa e, forse anche la più giusta in quanto immediata e quindi istintiva (a conti fatti affidarsi all’istinto è l’approccio migliore possibile per affrontarli), è che, si, il Garage Punk c’è, ma è solo un mezzo verso qualcosa di altro e di diverso:
tante son le suggestioni che il cervello accoglie in sé durante l’ ascolto, che pare quasi di affogare data l’enorme quantità di input e rimandi che gli Zoids riescono a concentrare in pezzi da pochi minuti.
Forse farci affogare è proprio quello che vogliono; farci sentire smarriti, indifesi, rassegnati a non poter comprendere a pieno un disco che, solo dopo ascolti ripetuti e ripetuti, può apparire un minimo comprensibile o, per lo meno, rintracciabile.
I pezzi si chiudono tutti e si aprono, per lo più, con dei fade in e dei fade out, come se fossero frammenti selezionati da opere di ben più ampio minutaggio; cosa stavano suonando prima? Dove si sono diretti dopo averci lasciato? Mistero. Un mistero che tuttavia non toglie ma aggiunge fascino, li descrive inesorabilmente come esseri altri, alieni; una continua sensazione di sotteso, celato ai più, permane per tutto il quarto d’ora scarso della sua durata; un quarto d’ora scarso ma che risulta intenso proprio perché pare essere parte di qualcosa di più enorme, costringendoci ogni volta ad una sensazione di smarrimento, un’impressione come di “eppure qualcosa mi deve essere sfuggito”, e proprio in virtù di quel “qualcosa” che ci sentiamo spinti a riascoltare:
più si ascolta e più si evince, più si evince e più viene voglia di riascoltare, e il disco non esce più dal lettore, catalizzando ogni nostro sforzo intellettivo.
È un disco complesso, come premesso, e merita quell’attenzione che, di questi tempi, raramente si riserva alla musica: relegata a semplice cornice, suono di sottofondo, secondaria rispetto ad attività insulse (tipo commentare San Remo) ma che gli Zoids riportano inesorabilmente ad un ruolo primario. Se non stai attento, rischi di non capire e sentirti come un analfabeta funzionale.
Si mascherano da Garage Punkers gli Zoids, ma nella realtà dei fatti suonano all’avanguardia: per quanto la cornice, dentro cui è proposto il loro quadro sonico, li farebbe avvicinare a gruppi del Budget Rock anni ’90, come Statics, Supercharger, Mummies e Brentwoods, in realtà le immagini che si imprimono nella mente sembrano più figlie dei primi Half Japanese (quelli dei primi singoli fino al secondo LP Loud), a tratti i Sonic Youth di Evil e Sister (ma anche i precedenti Bad Moon Rising e Kill Your Idols riaffiorano qua e là), i Velvet Underground di “White Light White Heat “ e gli Screamin’ Mee-Mees di “Plastic Hong Kong Door Bell Finger”(verrebbe anche da citare la stagione dello Shitgaze: gli Psychedelic Horseshit e certe cose più dissonanti dei Sic Alps…veramente un carnevale di rimandi possibili…ve l’avevo detto che non è semplice parlare di un disco così).
Insomma, dall’attacco del primo pezzo “Storms Revenge” (un tiro deciso e roccioso a fronte di un’armonia che va in frantumi) fino all’ultima “Megaborg” (partitura per chitarra rotta eseguita con delay) viene da pensare a un qualcosa di semplice e immediato e, al termine, ci si accorge di non aver capito un cazzo e di aver affrontato il tutto con lo spirito sbagliato; la mente umana fa spesso di questi errori, cerca disperatamente un appiglio per poter avvertire ciò che ha di fronte come familiare quando in realtà si sta confrontando con un qualcosa che richiede un maggior sforzo.
“Pensate di aver sentito tutto, ma in realtà non avete ancora sentito un cazzo”.
Alla fine, comunque sia, l’unico modo per definirlo, data la sua difficile catalogazione (voluta o non voluta che sia, ma io penso proprio che sia un atto volontario e consapevole) rimane quello di Musica da Outsider, un’espressione artistica per chi non si sente mai all’interno di un contesto poiché in niente si riconosce: un disco assemblato ed argomentato secondo i ricami della propria solitudine intellettuale, un’isola di sperimentazione nell’oceano dei luoghi comuni.
Ottimo davvero.